Poste Italiane (immaginetevi il jingle mentre lo leggete)
Uno poi pensa che sia un luogo comune quello dei dipendenti delle Poste – anzi, di Poste Italiane, ché sennò si arrabbiano. Non ci crede più, uno, a tutte le dicerie riguardo le scarse facoltà intellettual-mentali di chi lavora negli uffici postali – il famoso “se non sei imbecille non ti assumono”. Uno, cioè, nel 2006 non ci vuole più credere. Ma quell’uno è evidentemente un a persona come me, che frequenta le Poste il meno possibile – non poco, “il meno possibile”, che è ben diverso: vuol dire mandarci la mamma, la fidanzata, l’amico, talvolta persino la nonna, se la commissione da sbrigare non è particolarmente impegnativa. Tuttavia stamane alle Poste ci sono andato io – che vi frega? È o non è il blog un diario? – per fare la cosa più semplice del mondo: pagare un bollettino. Entro, i primi due sportelli sono dedicati ai prodotti postali – spedire, ricevere, etc… -; siccome in Italia è normale che si invii e si ricevi in quantità nettamente inferiore rispetto ai pagamenti, uno dei due sportelli è chiuso. Passo allora agli sportelli “normali” (ora si chiamano “Prodotti Bancoposta”, così, giusto per imbesuire ulteriormente la vecchina che non sa mai dove deve andare e si mette puntualmente in coda allo sportello sbagliato). Sono in tutto quattro, due di questi sono chiusi, e qui la cosa non è più normale, visto che un paio di righe sopra si diceva appunto che in Italia si paga in quantità infinitamente superiore a quanto si invia e si riceve. Ma tant’è. Di questi due, uno rimarrà fermo per tutta la durata della mia permanenza nell’ufficio, perché il cliente è amico del lavorante, e stanno lì beatamente a raccontarsi i cazzacci loro – la magra consolazione è che, nonostante il vetro spesso appanni un po’ la conversazione, tutto il dialogo è ascoltato in religioso silenzio dall’utenza. Conclusa la via crucis della fila, mi avvio felicemente bollettino alla mano, verso lo sportello dove la graziosa signora mi sorride dopo aver detto “prego…”. Consegno il bollettino dalla fessura, quella infila nella macchinetta e nel frattempo succede il finimondo – quello che ‘uno’, nel 2006, non dovrebbe più veder succedere, come si diceva all’inizio. Il tizio dello sportello in fianco al mio – quello dell’amabile conversazione – deve comunicare al suo amico dall’altra parte del vetro il codice fiscale. Ci prova in modo crudo (lettere e numeri sparati tipo la lotteria). Quello ovviamente non capisce un cazzo. Allora ci riprova con i numeri abbinati ai nomi delle città. E qui succede l’inghippo. Perché al momento di comunicare una ‘J’, il tizio dice “Juventus”, e il dipendente postale invece scrive una ‘Y’. L’amico – che sarà anche amico ma evidentemente conosce i limiti verbali del suo socio – allora scruta sullo schermo e fa presente che “tu hai scritto ‘York’, come Nuova York – evidentemente deve aver visto dei film americani ultimamente – mentre io ti ho dettato una ‘gei’. Il postino – che non lo è, ma ho finito i sinonimi e questo non è il tema della maturità – allora cade nel panico. E gli viene la bella idea di chiedere consulenza alla signora gentile gentile che nel frattempo stava servendo me – tutta questa faccenda del codice fiscale è accaduta nell’intervallo di tempo tra il mio presentare il bollettino e l’inserimento di quest’ultimo nella macchinetta per la verifica. A me intanto frullano, perché non è possibile che quello sia veramente così analfabeta. “Scusa, *****, vieni qui a darmi una mano che non capisco questa lettera?” – “arrivo”. “Ma per forza, *****, tu non hai capito questa lettera; dovevi scrivere una ‘gei’ e invece hai fatto una ‘iota’”. Ditemi che non è possibile, gli analfabeti a questo punto diventano due – perché va bene tutto, ma ‘I’ è Iota, ‘Y’ è ‘upsilon’, e tutto questo è un insulto all’alfabetismo (o, in alternativa, un elogio dell’analfabetismo, fate voi). La voglia di intervenire, pacatamente ché sono pur sempre un signore, era forte. Sono riuscito a resistere solo perché la ragazza in fianco a me – perfettamente sconosciuta – capendo tutto ha incrociato sorridendo il mio sguardo – e a questo punto mostrarle una lezione di tipica italiana ingratitudine sarebbe stato davvero scortese, non trovate? La tizia ritorna a servirmi, pago, e prima di andarmene le chiedo, sempre cortesemente “Scusi, sa, starei aspettando un pacco dall’Inghilterra. Nulla di urgente, per carità, solo che è stato spedito un mese e mezzo fa. La persona che sta in terra d’Albione mi ha assicurato di aver spedito il tutto. E ci credo, la fiducia prima di tutto. Però è strano, solitamente ci mettono al massimo un paio di settimane. Non è che può controllare se per caso vi è rimasto in ufficio, perché magari vi è caduto o cosa ne so io, e il postino non l’ha quindi infilato nel sacco della posta da consegnare nelle ultime 3 settimane a questa parte?” – e lei, gentilissima – “Guardi, non le so dire, per i pacchi deve parlare con *****, secondo sportello alla sua sinistra”. “Ah – faccio io – è lui che se li imbosca?”. Ed esco, finalmente, dall’ufficio postale.
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