sabato, dicembre 08, 2007

dello scaricare, del pentirsene e dell'avere conferma che la musica di oggi è bruttella.

Lo ammetto, l’ho fatto. Dopo tanto di quel tempo che nemmeno io mi ricordavo quando era stata l’ultima volta, ho scaricato musica dalla rete. Cioè mi sono munito di uno di quei programmi che utilizzano la tecnologia torrent e mi sono messo a scaricare canzoni, dischi. Lasciatemi spiegare: Bit Torrent lo avevo scaricato perché mi serviva per una cosa seria, ovvero ottenere un contenuto digitale in modo perfettamente legale, cosa per cui la tecnologia è stata inventata, tra l’altro. Fatto ciò che dovevo fare, la tentazione ha però preso il sopravvento, e allora sono andato in cerca di un motore di file .torrent, ho digitato un paio di titoli a caso e ho scoperto che: 1) rispetto ai tempi di Napster, Audiogalaxy e simili si trova un sacco di roba in meno; 2) l’attesa per scaricare un album è snervante rispetto a quanto ci si mette a comprarlo legalmente nell’iTunes Music Store (non so se con altre piattaforme che utilizzano diverse tecnologie, come ad esempio eMule, le cose cambino o meno). Dicevo, ho trovato il motore di ricerca e ho digitato un paio di titoli a casaccio, lasciandoli però lì dove stavano, perché mi sono detto che se proprio volevo provare a scaricare, tanto valeva farlo con qualcosa di nuovo che mi aveva incuriosito e che o non avrei mai comprato a scatola chiusa o per un motivo o per l’altro non avevo ancora considerato di acquistare. La scelta è caduta su Made of Bricks di Kate Nash e Comicopera di Robert Wyatt. Clicca, apri, salva - fatto sta che passati i minuti necessari – troppi! – per essere scaricati, i due dischi stavano magicamente nel mio pc, a costo zero. E, chiamatemi snob, chiamatemi stupido, ditemi quello che volete, la sensazione che fossero in qualche modo dischi “sporchi” ha avuto la meglio. Avevo come l’impressione che il loro eventuale valore musicale dipendesse in qualche modo dal fatto che per averli io avessi saltato alcuni passaggi di quella che è la tradizionale trafila dell’acquisto; sicuramente avevo saltato il passaggio in cui, fisicamente o virtualmente per mezzo di carte di credito, mettevo mano al portafoglio. Non era nemmeno la stessa cosa che succede quando mi imbatto in cd promozionali che mi vengono regalati e/o che mi ritrovo nella casetta della posta: lì si tratta di fare un lavoro, si richiede un giudizio specifico e l’avere il disco gratis è una parte della forma di compenso di cui beneficio per parlare di quel titolo. Questa volta, con i file digitali che stavano in due cartelle, ho capito immediatamente che i due dischi non potevano essere di grande valore, non potevano possedere uno spessore artistico superiore ad una certa misura: erano orfani di qualche cosa, vuoi anche del rispetto verso l’artista, della voglia di imbatterti in loro, di possederli fisicamente ancor prima che tramite l’ascolto. Relazionarmi con loro è stato quasi problematico e, almeno all’inizio, impossibile: schivavo le note come quando di riflesso una forza ci impedisce di allungare il dito e toccare una fiamma, e solo con il tempo sono riuscito a metabolizzare in qualche modo l’accaduto. Bit Torrent l’ho ovviamente disinstallato all’istante, se mai avrò ancora bisogno di lui per qualche utilizzo legale – mi dicono che sul sito dei Nine Inch Nails sia in lecita distribuzione un album di remixes via torrent – lo reinstallerò. Per ora ne ho avuto abbastanza.

Scaricando quasi per caso due dischi nuovi, ho capito solo una cosa, o meglio di quella cosa ne ho avuto conferma. E cioè che non si pubblicano più dischi memorabili, e talvolta anche i vecchi leoni – leggi Robert Wyatt – danno vita a opere che si assestano sul mediocre e nemmeno dopo ripetuti ascolti prendono il volo, o si dimostrano qualcosa di più che dischi cosiddetti “di maniera”. Prendente Kate Nash: è una tizia che sta facendo impazzire il Regno Unito con quello che viene un po’ bislaccamente definito indie-pop. Dovessi usare un termine di paragone valido – e per rimanere nel campo di artisti recenti – tirerei fuori due nomi: Regina Spektor e i Dresden Dolls, la prima per la frivolezza pop che pervade il disco e per una certa similitudine vocale e i secondi per una qualche forma di follia compositiva nonché per l’utilizzo schizofrenico – ma i Dolls sono tuttavia più folli – del piano. Insomma, la Nash stava sulla bocca di tutti, il video del singolo Foundations aveva attirato la mia attenzione un paio di volte e se persino il New York Times aveva parlato bene di un disco inglese non ancora distribuito negli States (“Non è difficile immaginare il motivo per cui nel Regno Unito sono tutti così eccitati per Miss Nash, ovvero la seducente idea che una canzone di successo possa essere semplice e complicata come una causale conversazione”) vorrà dire che sotto la crosta un po’ di luccichio è presente. E sì, è presente, ma niente che faccia gridare al miracolo. O meglio ad un preciso tipo di miracolo che possa rimanere tale anche sulla lunga durata. Così come per i lavori dei già citati Spektor e Dresden Dolls, questo Made Of Bricks passerà il Natale indenne, ma non arriverà nemmeno a carnevale. Rimarrà una manipolo di brani che in pochi ricorderemo. Niente a che vedere con qualcosa che lasci il segno sul serio. Una futile illusione, buona all’istante – e finché dura… – ma che puzzerà di vecchio non molto dopo.

E la stessa cosa, ma con tutte le aggravanti del caso, la si può dire anche per Robert Wyatt e per la sua Comicopera. L’artista è geniale, inutile ribadirlo. Papà della scena di Canterbury degli anni ’70 (Third dei Soft Machine è una delle migliori cose dell’epoca), esploratore degli abissi musicali con Rock Bottom – e in parte con il successivo Ruth Is Stranger Than Richard – ha sempre mantenuto il livello della sua produzione piuttosto alto, tra lirismo, poesia e genio musicale. Questa Comicopera – alla quale collaborano come sempre anche Brian Eno e Phil Manzanera - invece delude parecchio e ci offre un Wyatt al peggio della sua forma. Canzoni che perdono il genio nella non conclusione, voce affaticata e priva del suo solito fascino, produzione decisamente non all’altezza. Quando da un disco di Wyatt salvi solo due canzoni (in questo caso Just As You Are e il rifacimento di Del Mondo dei CCCP – Fedeli alla linea) vuol dire che il problema è più che serio. E l’ammettere che magari tutti i dischi nuovi fossero come quest’ultimo di Robert Wyatt suona come una lievissima consolazione, niente di più.

Ricollegandoci all’inizio, viene quasi il dubbio che a scaricare tutta questa musica in modo illegale dalla rete – e dando per buono che la gente scarichi più le nuove uscire rispetto ai vecchi classici, altrimenti non si spiegherebbero le irritazioni di un’industria discografica che più passa il tempo e più è carnefice nel suo essere vittima – a scaricare tutta questa musica, dicevo, non è che si guadagni granché. Primo perché si rischia una bulimia musicale che non porta da nessuna parte: si scarica “l’impossibile” proprio perché è impossibile star dietro con l’ascolto a tutto il materiale scaricato, e in più lo si sente estraneo, diverso, finto fino ad arrivare al mio senso di colpa snob (?). E poi perché il livello qualitativo delle uscite degli ultimi anni è tanto basso da essere quasi imbarazzante. Non esiste più un disco che segni un’epoca, che marchi gli anni (l’ultimo quale è stato? Forse Ok Computer dei Radiohead, quasi dodici anni fa) e che renda la popular music di questi anni ’10 qualcosa di meno triste di quello che è. Tanto vale, dico, andare in un megastore, cacciare 10 euro e comprarsi un gran capolavoro: quello è il prezzo degli ottimi dischi. Il più giovane dei quali ha all’incirca 25 anni. E ve lo impacchettano e ve lo infiocchettano con rimasterizzazioni, riproduzioni fotostatiche degli interni originali del vinile, nuove e vecchie “linear notes” e spesso inutili bonus tracks, canzoni che se non trovarono spazio al momento dell’uscita un motivo ci sarà pur stato, ma che comunque rendono l’opera filologicamente più interessante. Un affare, che per di più creerà un legame quasi fisico tra voi e l’opera acquistata. Quel legame che solo la legittimità dell’atto, e la fiducia offerta dal portafogli, possono tenere insieme.

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