Un disco alla settimana - 9
Sale sul palco e aspetta. Non è placido, è solo in attesa dell'ispirazione. Il pomeriggio prima dello spettacolo, come al solito, l'ha passato in albergo: un libro, una colazione leggera e veloce, un po' di concentrazione. Niente spartiti, appunti, note, piccole sequenze musicali. Niente di niente. Solo un uomo, uno Steinway – uno dei tanti che gli hanno messo ha disposizione e che lui ha salvato dallo scarto – e la sua concentrazione. Possono passare anche dei minuti prima che prenda posizione sullo sgabello e faccia partire le dita. In quei minuti deve trovare lo spunto, non può fare scena muta e sebbene non gli sia mai capitato non può neanche permettersi di correre il rischio - “non ho nemmeno un seme quando comincio, è come partire da zero” affermerà in una dichiarazione. Lo spunto prima o poi arriva. E se non è buono lo si sviluppa comunque, in attesa che la sua evoluzione porti a qualcosa di meglio. Per lui, ovviamente. Il pubblico è troppo ammaliato dalla sua figura per accorgersene. È lui che deve godere, prima di tutto. È lui che trae da questa eterna sfida chiamata improvvisazione la sua linfa vitale. È una scommessa questa. Che Keith Jarrett – il personaggio del quale si sta parlando – è abituato ad affrontare e a vincere, come quando dai lavori solisti è passato al trio – e che trio: Jack DeJhonette alla batteria e Gary Peacock al basso – e dal trio alla reinterpretazione di Mozart, Bach, Haendel e del russo Shostakovich . Ma la sfida più importante, l'ultima, ha bussato alla porta quando si è trattato di venire fuori da quella terribile malattia conosciuta come Sindrome da Affaticamento Cronico. Una bestia nera che dal 1996 per tre anni l'ha spossato, l'ha ammazzato e l'ha umiliato fisicamente, e se non l'ha ucciso anche psicologicamente è stata solamente una questione di forza. Jarrett la sua forza l'ha dimostrata, e dal 1999 ne è uscito, grazie anche alla moglie che gli è stata accanto nella loro fattoria del New Jersey, riprendendo così i numerosi concerti nei più prestigiosi teatri d'opera di tutto il mondo. Già, strano connubio questo: lui, un jazzista tra i migliori al mondo, figlioccio di Bill Evans e vecchio compagno di Miles Davis in quello che con ogni probabilità è stato l'ensamble più prestigioso del Jazz – un pedigree che parla da solo, dunque. Loro, i teatri, capolavori d'arte, di architettura e di acustica, abituati a rappresentazioni sontuose, a orchestre mirabolanti e a direttori a dir poco eccentrici. Keith Jarrett ne ha girati molti di teatri nel corso degli anni, da Colonia a Vienna, da Brema a Losanna, persino alla Scala di Milano. E fa strano vedere lui “dentro” loro. Con il suo pianoforte, disposto lateralmente rispetto al pubblico. Su quel palco, su quelle assi di legno che se presentano la caratteristica – per altro, occidentale – della lieve pendenza atta ad offrire la miglior visuale possibile in qualunque zona della sala lo spettatore sia seduto, Jarrett non ci suona sopra. Il suo manager quando è il momento di contattare le prestigiose sale è infatti intransigente: vuole visionare foto, piantine, schemi acustici, numero di posti disponibili. E soprattutto quella pendenza non ci deve essere: Jarrett soffre di mal di schiena, dopo 10 minuti in quella postura innaturale impazzirebbe, quindi se volete farlo suonare mettete almeno una pedana che elimini – e completamente – le pendenze. Altrimenti arrivederci e tanti saluti, il nostro non esce nemmeno dall'albergo nel quale si è chiuso a meditare prima dello spettacolo.
Lui è così; c'è chi lo accusa di snobismo e chi invece pensa siano solamente capricci di uno che è diventato qualcuno anche oltre l'elitaria cerchia del Jazz. Ma qualsiasi cosa si possa affermare – di buona o di cattiva, poco importa – nei confronti di Keith Jarrett viene eliminata, fatta sparire dai meandri più nascosti nella mente, appena il nostro tocca il pianoforte, appena il famoso nucleo primordiale della sua improvvisazione ha trovato una via di fuga che dalla mente porta alle dita. E guai ad interromperlo, perché altrimenti è lui ad interrompere la vostra goduria: se lo disturbate – basta un bisbiglio – vi ammonisce, vi sbugiarda d'innanzi all'intero parterre, vi umilia, non vi fa sentire degni di lui – e probabilmente l'assenza di mancanza di rispetto nei suoi confronti in quei momenti equivale a tutto ciò – e allo stesso modo se provate a criticarlo. Basta un apprezzamento non particolarmente bonario e lui chiude il coperchio dello strumento, saluta e se ne va – se lo ricordano bene quelli che il 23 giugno del 1998 si trovavano al Teatro della Verdura di Palermo e che ancora cercano il responsabile di quel fischio per corcarlo.
Dovreste vederlo, ad esibizione inoltrata, che spettacolo Keith Jarrett. Non adora particolarmente il pianoforte, con ogni probabilità nella sua testa è uno strumento come tanti altri – come un timpano, o un violino, o un trombone – ma a lui più congeniale di altri; è quello che gli permette nel modo più semplice e più diretto, più veloce, di esprimere la sua arte. È il mezzo che immediatamente gli consente di trasformare il parto delle sue cellule celebrali, il primo nucleo musicale, in suoni, ed esprimere la successiva seconda elaborazione e poi la prima melodia, l'elaborazione della melodia, l'armonizzazione totale della melodia, il ritmo che si è stabilizzato e il conclusivo – orgasmico – elaborato. È la tavolozza del pittore che possiede più colori di tutte le altre e che gli permette di costruire il suo paesaggio partendo da quel primo tratto – il primo spunto, il nucleo primordiale – che può anche non vedersi più a dipinto concluso, ma che è fondamentale per dare il via al lavoro, per portare avanti la costruzione armolodica.
Ansima Keith Jarrett quando suona il pianoforte, e nei suoi lavori d'improvvisazione la cosa è estremamente riconoscibile, basta alzare di un pelo la manopola del volume. Si sente il respiro pesante, la melodia prima cantata sforzando la gola e il naso e poi suonata al pianoforte. Fa un accompagnamento vocale e tiene il ritmo con i piedi – non è raro, infatti, vederlo in piedi davanti al pianoforte nei momenti di massimo spasmo artistico. Si potrebbe dire che Jarrett con il pianoforte fa l'amore, se la cosa non stridesse con la sua idea di strumento meccanico come mezzo non particolarmente amato per esprimere in musica le sue idee. Lo sprona a tirare fuori il meglio. Il pubblico in sala gioisce, si stupisce. Sono sempre due o tre minuti di applausi alla fine di ogni esibizione. Lui ringrazia in modo composto ma nella sua mente, c'è da giurarlo, è già alla ricerca del nucleo primordiale per l'improvvisazione successiva.
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1 Commenti:
ciao gian!! complimenti!! è scritto davvero bene! è troppo un genio jarrett..
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