giovedì, febbraio 15, 2007

Un po' di musica per voi

[piccolo riciclo: quanto vedete pubblicato qui sotto potrebbe essere pubblicato anche da un'altra parte, la cosa ancora non è sicura. Ve ne omaggio, giusto per farmi perdonare la frequente assenza dal blog. Se poi è roba che non vi frega e/o vi fa anche discretamente cacare, beh: a caval donato non si guarda...come si dice?]

Parlare di Miles Davis è forse in assoluto la cosa più difficile di tutte, per lo meno in campo musicale. Inquadrarlo poi in una corrente, impossibile. È nato con la rivoluzione del bebop ma lui, gran figlio di buona donna a detta di tutti, le successive trasformazioni le ha volute dettare, non subire. Dal jazz modale al cool jazz con tutto ciò che ci sta in mezzo, per finire con un periodo elettronico nel quale tutti rimasero esterrefatti: ascoltatori incantati dalle opere e critici incazzati neri perché Miles, gran bastardo, li aveva fregati. Di quest'ultimo periodo è il doppio, fenomenale “Bitches Brew” (1970, Columbia), nato da una jam sessions in cui la crema del jazz e buona parte di coloro che dettero il via alla rivoluzione fusion e jazz-rock vennero coinvolti. Da Jack DeJohnette alla batteria a Dave Holland al Basso. Da Chick Corea e Joe Zawinul (Weather Report) al pianoforte Fender Rhodes, a John McLaughin alla chitarra; e nell'idea originale di Davis il punto di forza stava nel chiamare Jimi Hendrix, che proprio sul finire degli anni '60 incantò lui e altri milioni di persone in tutto il mondo, e che se non lo troviamo tra questi solchi è solo perché, poco dopo la storica esibizione di Woodstock, ci lasciò le penne. Il risultato di quelle sessioni è stratosferico: negri e bianchi insieme, tutti magistralmente orchestrati da Miles Davis e dalla sua cocaina. Un prodotto musicale senza limiti e confini, come si addiceva al periodo. Ritmi serrati di due batterie distribuite ciascuna su un canale, destro e sinistro. Chitarre acide, trombe, sax e clarinetti. Un'orgia musicale dove si sente un gran bel pezzo d'Africa, quella americana di Harlem e quella africana delle percussioni di Jumma Santos. Un parto musicale che nessuno, al giorno d'oggi, riuscirebbe ad avere; una struttura, una composizione, un'interpretazione che molte mammolette rock odierne nemmeno riuscirebbero a sognare di notte. Nelle note interne al disco, lo storico critico jazz Ralph J. Gleason afferma di percepire infiniti flash nella mente durante l'ascolto dei nastri originali, e che se dovesse scriverne a riguardo, comporrebbe “una novella piena di vita, di scene, di persone, di sudore e di amore”. Ha sottinteso l'allucinante genio creativo di Miles Davis e tralasciato la droga; per il resto, è la miglior descrizione in assoluto dell'opera.

Quando si parla di un supergruppo si tende sempre o a fare paragoni con le band di provenienza dei singoli musicisti, o si concede sempre il voto più alto perché, proprio in virtù dell'essere eccellente nei nomi di chi ha composto e suonato, lo si ritiene eccellente anche nel risultato finale. I The Good, The Bad & The Queen (2007, Parlophone) sono il primo supergruppo che ha qualcosa da dire nel nuovo millennio e semplicemente perché tutti i gruppi di provenienza dei singoli elementi hanno dato il meglio prima del 2000. Dunque, alla voce e al pianoforte c'è Damon Albarn, dei Blur e dei Gorillaz, al quale evidentemente stava stretto l'essere considerato l'anti Liam Gallagher e ha preferito, anziché arenarsi o riciclarsi pateticamente, dare vita a progetti musicali differenti tra loro nel tentativo di lasciare il segno in più campi e – soprattutto – spiazzare l'ascoltatore (e, in parte, c'è riuscito). Alla chitarra c'è Simon Tong, ex Verve, desideroso di prendersi la rivincita e di far parlare di sé non soltanto in funzione dell'essere stato il chitarrista del gruppo di Richard Ashcroft. Alla batteria c'è un veterano del percussionismo nero, caldo, claudicante e sbavato: il nigeriano Tony Allen. Infine al basso e al motore musicale, capirete perché leggendo e soprattutto ascoltando, c'è Mr Paul Simonon direttamente da uno dei due-tre gruppi più importanti del Novecento, i Clash. Il quale prende tutto il suo bagaglio dub che tanto diede a dischi come “London Calling” e soprattutto al successivo e triplo “Sandinista!” e lo mette a disposizione di questo nuovo progetto. Dal quale emergono lodevoli ballate metropolitane sorrette appunto dal basso di Simonon e dai fraseggi leggeri di Tong sulle quali si posa, dolce, la voce zoppa di Albarn. Di Blur e Verve, manco a dirlo, non c'è traccia e per quanto riguarda i Clash non aspettatevi una nuova “Junco Partner” o una “Rebel Waltz” aggiornata al 2007. Non è un disco di facile presa o da canticchiare, ma uno scenario post-apocalittico, nel quale tutto è distrutto e dalle macerie si alzano lentamente queste agrodolci melodie. Stupisce, in questo senso, il successo commerciale che il progetto sta avendo, ma questa è un'altra peculiarità dei supergruppi.


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