la vecchia sceneggiata sanremese
Non è per fare quello che Sanremo è uno schifo a tutti i costi. No, Sanremo non è mai stato uno schifo “a tutti i costi”, ma quest’anno è obbiettivamente scarso. Al netto delle scelte “televisive” dello spettacolo, la musica è inesistente: non c’è una canzone che raggiunga la sufficienza (se non nelle pagelle dei critici musicali dei principali quotidiani nazionali, ma è un caso a sé), e anche quelle due o tre che sembrano emergere, lo fanno solo in virtù del fatto che le altre stanno ad un livello talmente basso da non esistere quasi. A volerla dire tutta, Sanremo è vecchio non per il suo conduttore e direttore artistico; certo, si può credere che anche Baudo faccia la sua parte, e sicuramente è così e semmai dobbiamo indagare sul perché ancora lui, ma la vecchiaia del Festival risiede soprattutto nelle canzoni e nei loro interpreti. Non è facile ironia: Toto Cutugno e Little Tony, per esempio, rappresentano il cantautore italiano di almeno 35 anni fa. È gente che fa parte del bagaglio nazionalpopolare del nostro paese, ma che non è più capace di rappresentarne l’aspetto musicale. La musica italiana, nell’anno di grazia 2008, non è quella portata all’Ariston da questi due cantanti. Ma non è nemmeno, e questo è ancora più grave, quella di artisti relativamente più giovani come Michele Zarrillo, o Eugenio Bennato. Per questo il Festival ha perso mordente: sembra la programmazione musicale di una radio per casalinghe, gente a cui piace crogiolarsi nelle canzoni del passato. Anche le canzoni degli interpreti più giovani (penso a L’Aura o ai Finley) hanno quel sapore Sanremese che mai si troverebbe in altre loro composizioni. Intendiamoci, niente di male in ciò, ma per uscire dall’imbarazzo due sono le soluzioni. La prima, quella di cambiare la denominazione del festival, da “Festival della Canzone Italiana” a quello di “Festival della canzone tradizionale italiana”. In questo caso anche i musicologi sarebbero concordi nel considerare “tradizione” ciò che ormai ha 30-40 anni e non più almeno mezzo secolo alle spalle. La seconda, a mio avviso la migliore, è quella di mantenere la denominazione corrente ma di operare una selezione delle canzoni tenendo ben presente quella che è la musica italiana odierna. Ovvero la musica di qualche valoroso che là fuori pure c’è, e quella dei superospiti italiani che ogni anno si rifiutano di andare all’Ariston perché, questa è la verità, il Festival non va più bene nemmeno come veicolo di promozione per un singolo in uscita o per una tournee estiva la cui prevendita è appena iniziata.
Ma non solo per questo Sanremo si sta dimostrando scarso. Prendiamo il caso Loredana Berté: ha fatto le bizze per farsi prendere al Festival, si è presentata con un brano (“Musica e Parole) scritto insieme ad Alberto Radius, graffiante sì ma niente di speciale. Poi si è scoperto che la canzone era già stata scritta da Radius una ventina di anni fa per la cantante Ornella Ventura (“Ultimo Segreto”) ed inclusa in un disco prodotto da Tullio De Piscopo, uscito per
Per terminare lo spettacolo Sanremese, ora assisteremo alla spettacolare triangolazione tra
Fatelo, sfogatevi, accusate il plagio e i casi di cronaca di aver fatto crollare gli ascolti. Poi, però, dall’anno prossimo che si cambi veramente solfa. Unica concessione: Piero Chiambretti, che sa fare onestamente il mattatore ma che da solo non basta a risollevare le sorti di un Festival pieno di vecchiaia, nemmeno troppo ben camuffata dalle scintillanti scenografie.
Etichette: Loredana Berté, musica, Pippo Baudo, plagio, sanremo
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