varie ed eventuali.
Immaginate che mentre vi sto scrivendo nasconda impacciatamene la mia faccia – puf! – dietro un telo, tanta è la vergogna. Certo, potevo starmene lontano da voi ancora per un po’ e lavarmene le mani, rimandare di ora in ora – di giorno in giorno – il momento della vergogna, quello di dover nascondere la faccia per paura dei vostri sguardi di punizione e di «dove cazzo sei stato tutto questo tempo?». E, invece, eccomi qui. Non spavaldamente, bensì con estremo senso del pudore: non avrei scritto cotanto cappello introduttivo. E poi passiamo alle scuse: sempre il poco tempo, nell’accezione il più generale possibile, ovvero in quella il più particolare che ci si possa immaginare: le tante piccole cose che richiedono tempo e che sommate insieme portano ad una generalizzata mancanza di tempo per altro. E, vi giuro, mi dispiace rubricare l’esercizio di scrittura e il rapporto unidirezionale con voi tramite questo mondo – il blog – come una mancanza di tempo, perché in effetti dovrei inserire tutto ciò nelle piccole cose che sommate insieme… - l’ho già scritto qualche riga più sopra, e manco di tempo, ricordate? Ma l’esercizio di scrittura prosegue, in forma privata per cose che richiedono la forma privata e il buio dei taccuini, in forma pubblica per tutto il resto. Manca, ahimé e come appena detto, la «forma blog», e cercherò di rimediare in futuro semmai ricorrendo all’artificio di cui proprio ora mi sto ubriacando: arzigogolare le frasi così tanto da renderle poco immediate, e tentare la necessità di una seconda, o terza o quarta o quinta, lettura anche se potrebbe sembrare eccessivamente presuntuoso pensare di esserne capace; riuscissi nell’impresa, comunque, avreste da leggere il doppio, o il triplo o il quadruplo o il quintuplo della normale razione. E dopo le scuse, passiamo alla ricompensa per essermi fatto perdonare: un paio di segnalazioni, che sono da prendere come doni, e dunque vale la regola del cavallo donato al quale non va mai, per nessun motivo, guardato in bocca.
[*] domenica, nella pagina delle opinioni del Los Angeles Times, è uscito un pezzo fantastico, da leggere tutto d’un fiato e da invidiare perché nei giornali italiani di cose così non se ne trovano mai, tantomeno la domenica: una ragazza di Baghdad racconta di come sia cambiata la sua visione delle cose quando, atterrata negli Stati Uniti, si è tolta il velo.
[*] il formidabile critico musicale del New Yorker, Sasha Frere Jones, racconta le prodezze dell’AutoTune. Ve le racconta, io le conoscevo già, ma mai ne avevo letto in salsa tanto snob.
A questo punto se non gradite – o, in subordine, se pensate che l’ombelico sia stato fissato più che sufficientemente – sono fatti vostri.
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