domenica, aprile 30, 2006

Musicalia - Nikki Sudden, Morrissey e Queensryche

Il 26 marzo scorso è morto, a quanto pare per overdose, Nikki Sudden. Compositore e chitarrista inglese, ha iniziato la sua carriera con gli Swell Maps per poi proseguire al fianco di Dave Kusworth nei Jacobites e parallelamente con una prolifica carriera solista. È stata una perdita improvvisa oltre che inaspettata: aveva appena terminato un concerto a alla Knitting Factory di New York. Sarò sincero: non ne conosco l'opera omnia, ma in questi giorni mi è capitato spesso di riascoltare il suo ultimo lavoro, Treausre Island (Secretly Canadian, 2004), rendendomi così conto che di compositori come il buon Sudden difficilmente ne troveremo. Artista sopraffino, anima fragile, sempre in bilico tra gioia e disperazione. C'èra del blues, del rock'n'roll, roba che scuote e non lascia indifferenti. C'era una voce ruvida contro la quale un hammond dolcissimo era chiamato a fare da contraltare. C'era una chitarra elettrica di leggera violenza, se la cosa non vi pare troppo strana. C'era e purtroppo non c'è più.
Morrissey
, uno che negli anni 80 ha fatto piangere milioni di adolescenti con gli Smiths, torna a distanza di due anni dal precedente You are the Quarry con Ringleaders of the Tormentors (2006, Attack records). “Registrato e mescolato” - come recitano in un bislacco italiano le note di copertina – interamente a Roma, il nostro si ripresenta al grande pubblico con un disco immenso. Per quanto mi riguarda il migliore in questa prima parte dell'anno. Ha il gusto di sempre, Morrissey. È perennemente in bilico tra il lirismo, il dandysmo artistico-letterario (“Pasolini is me, Accattone you'll be”) e la voglia di commuovere. La produzione di Tony Visconti – l'uomo dietro al sound di Bowie-Ziggy – è perfetta nella semplicità, getta uno sfondo di fard e smalta a dovere le unghie, per un piacevole randevouz glam rock. E allora tutti in fila, per celebrare il ritorno di un sound che non c'è più, di liriche che non si ascoltavano da tempo, di un fenomeno ritrovato, di un gruppo – gli Smiths – mai troppo rimpianto. E delle lacrime, che ci scorrono copiose ogni qual volta ci capita di ascoltare Morrissey crooneggiare in questo modo; quindi più o meno dal 1986, anno di quella There's a light that never goes out (The Queen is dead, Sire, 1986) nella quale gli Smiths cantavano che morire per lo schianto di un “double decker bus” accanto alla persona amata “is such a heavenly way to die”.
Gran disco che va, brutto disco che viene. È il caso dei Queensryche, che con Operartion:Mindcrime pt.II (2006, Rhino/Warner) non fanno altro che applicarsi in quella che con parole fin troppo generose viene definita “operazione nostalgia”. I 'ryche da un po' di tempo sembravano smarriti, confusi, alla ricerca di un proprio stile, di una propria ed originale strada; loro, che sono sempre stati restii alle gabbie musicali. Ed è questo che non funziona con il nuovo lavoro: han voluto fare il sequel di un disco uscito 15 anni fa; e tra le altre cose, non un “disco qualunque”, bensì una vera e propria pietra miliare. Questo era – ed è, attualissimo, tutt'oggi – Operation:Mindcrime. Il concept album perfetto nell'(hard) rock. Il The Wall per i palati più duri. Un disco con il quale tutta la generazione successiva di musicisti si è dovuta confrontare ogni qual volta voleva produrre un disco con una storia sullo sfondo; un fardello che pesa, in termini di responsabilità, su una carriera oltre che il classico colpo che, se un gruppo ha la fortuna di possedere, non è mai doppio. Producendo questo nuovo lavoro hanno quindi compiuto una netta involuzione anziché un tentativo di smarcarsi dagli ultimi insipidi lavori e riconfermarsi quei grandi musicisti che abbiamo avuto il piacere di amare fino alla metà degli anni 90. E invece no, una strizzatina d'occhio ai fans di vecchia data, come a dire “suoniamo ancora come voi ci volete, visto che non vi abbiamo traditi?” e tutta la creatività e la – tanta – sperimentazione a farsi benedire. Solamente che ora i nostri rischiano l'effetto boomerang: ad esempio a me il disco non è piaciuto per niente. Brutta produzione, canzoni spesso inconcludenti, storyboard messo lì un po' a caso. Non basta l'ospitata di un Ronnie James Dio sinceramente fuori contesto per alzare il livello qualitativo. Certo, ogni tanto il guizzo del genio lo si sente – penso a pezzi come Signs say go, The Chase e A junkie's blues. E d'altronde di un gruppo di (ex?) geni stiamo pur sempre parlando. Viene quindi spontaneo chiedersi perché abbiano voluto cimentarsi in questa porcheria.

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