Quando nelle librerie si fumava
I salutisti sono contenti. Anzi, in questo modo hanno un’arma in più per poter manifestare la – secondo loro – superiorità morale nei confronti di chi invece ancora si azzarda a recarsi dai tabaccai e a uscirne con un pacchetto di Marlboro in tasca, pronto a sentirsi dire, da lì ad un’oretta, che ha la bocca tale e quale ad un posacenere. Tutti gli altri, i fumatori e, beninteso, i tolleranti, invece sopportano pochissimo le leggi contro il fumo. E non solo perché hanno tolto il piacere della sigarette ovunque venisse la voglia, senza dover per forza andare sul marciapiede e correre il rischio di incappare nei classici rompicoglioni che attaccano bottone con chiunque, ma anche perché – e soprattutto – hanno tolto la poesia. Prendete ad esempio le librerie. Ecco, quelli sono luoghi dove la cortina di fumo dovrebbe essere sempre presente e annebbiante; dove il puzzo di tabacco ristagnante dovrebbe diventare aroma, ed essere sopportato da tutti e confondersi così bene con l’odore della carta che, invecchiando, ingiallisce e inacidisce, sprigionando quell’odorino acre che tanto sa di antica biblioteca. E invece no, nelle librerie non si fuma più: d’altronde i posacenere enormi e minacciosi all’ingresso sono lì come un monito: prova a entrare con la sigaretta, che la multa è assicurata.
Annie François ne “Il mondo in fumo”, ricordando i tempi che furono, scrive che “ovviamente, si fumava nelle librerie, in cui nessuno assumeva una falsa aria dispiaciuta e diceva: «lei mi capisce, con tutti questi libri»” e “i librai fumavano più di tutti”. Chiaro, il librario era anche intellettuale, e in quanto tale, avvezzo a qualunque vizio, tabacco compreso. Per chi come
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