domenica, gennaio 11, 2009

La crisi della carta stampata e un esempio coraggioso

Per un animale che si nutre di carta stampata – una brutta espressione che però rende bene l’idea della persona – dare un’occhiata al settore per vedere cosa riserverà il futuro dà i brividi. La crisi che colpisce il mondo dei media cartacei, si fa sentire più che da altre parti: alla mancanza di soldi, infatti, va aggiunta la concorrenza spietata, e di minore qualità, del web e della cultura digitale.
Ecco lo scenario in Italia. Il Corriere della Sera e La Repubblica perdono in diffusione e raccolta pubblicitaria; oltre ai vari tagli, riduzioni e prepensionamenti annunciati, il primo è stato ridotto di tre pagine, ha tolto i collaterali gratuiti ai suoi giornalisti e portato la mazzetta (che prima era illimitata) a un massimo di cinque quotidiani e tre periodici per giornalista. Il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, invece, ha ridotto la foliazione e rinunciato, tra lo sgomento del Cdr, al primo numero dell’anno del suo supplemento femminile D. Il Foglio di Giuliano Ferrara in un editoriale pubblicato il 6 gennaio chiede «uno sforzo» ai suoi lettori: dal prossimo lunedì aumenta il prezzo di 30 centesimi, sospende l’edizione domenicale considerata «più onerosa del previsto per un’organizzazione editoriale nata per un giornale agile» e si prepara ad affrontare altri non meglio precisati tagli. Seppur con molta (auto)ironia: non essendosi allargati molto in passato, al giornale di Ferrara spiegano che «non c’è molto grasso da tagliare (a parte il direttore)». Il Riformista, l’ultimo dei quotidiani italiani che si è dato una rinfrescata non solo grafica ma anche economica, grazie ad un piano di rilancio di svariati milioni di euro portato avanti dagli editori Angelucci, ha già perso per strada qualche pagina. Rispetto all’esordio nella sua nuova edizione, avvenuto il 20 ottobre scorso, il quotidiano che si preannunciava come la risposta italiana al Financial Times (ma sembra più un’imitazione, da sinistra, di Libero), ha ridotto la foliazione da 32 a 24 pagine. Il manifesto, quotidiano comunista e perennemente in crisi (con o senza nessi causali tra un fatto e l’altro), un paio di settimane fa ha chiesto uno sforzo notevole ai suoi lettori abituali – sperando che lo sforzo si estendesse anche ai simpatizzanti suoi o della carta stampata in generale – andando in edicola per un giorno al prezzo di 50 euro. Le sedi di corrispondenza all’estero dei grandi giornali sono chiuse in numero sempre maggiore. Il lavoro dell’inviato, di rimando, viene fatto fare dalla redazione centrale, grazie a internet o grazie a chi può permettersi ancora di mandare in giro per il mondo qualcuno dal quale poi scroccare il necessario per imbastire un pezzo. I quotidiani politici (tra i quali solo La Padania, Europa, Liberazione e Il Secolo d’Italia si trovano nelle edicole), guardano con preoccupazione ai tagli ai finanziamenti pubblici all’editoria, spesso l’unica vera fonte di sostentamento per imprese editoriali di questo tipo. Se è vero infatti che Piero Sansonetti da martedì 12 gennaio non sarà più il direttore di Liberazione, ufficialmente per via di contrasti sulla linea del giornale tra lui e la segreteria di Rifondazione Comunista, è pure vero che il segretario Paolo Ferrero ha usato come motivazione anche quella di una presunta emorragia di copie. E dopo la debacle elettorale di Rifondazione Comunista con la Sinistra Arcobaleno, il partito può contare su rimborsi elettorali notevolmente ridotti rispetto al passato. E meno rimborsi elettorali si traducono in meno soldi in cassa, cioè (anche) in meno disponibilità economica per fronteggiare i costi del quotidiano che perderebbe due milioni di euro all'anno. L’Unità, da qualche mese guidata dall’ex inviato di Repubblica Concita De Gregorio e acquistata dal candidato alla regione Sardegna del Pd Renato Soru, ha dovuto ridursi – nel vero senso della parola – all’aspetto di un quotidiano free-press per poter colorarsi tutte le pagine. Un discorso a parte, poi, meriterebbe la scarsa qualità della stampa periodica italiana, segno sia della crisi che di un mercato editoriale troppo preso a sfornare un prodotto tranquillizzante per i lettore e per l’editore, al fine di non lasciare troppo spazio alla concorrenza. Basti prendere come esempio i due più importanti newsmagazine: Panorama (Mondadori) e l’Espresso (Espresso-Repubblica). Il primo sorregge il secondo, e viceversa; nessun serio tentativo di innovazione, di ammodernamento, di sparigliare le vetuste regole che li governano da decenni, per paura di regalare copie all’avversario – la differente linea politica che li divide, poco importa. Questo esempio può essere esteso ad altri – sovraffollati – settori. Staremo a vedere a febbraio il lancio dell’edizione italiana di Wired, ad opera di Riccardo Luna per Condé Nast, e nel frattempo continueremo a leggere la stampa straniera tramite Internazionale nella speranza che, prima o poi, qualcuno abbia il coraggio di mettere insieme un’impresa coraggiosa di grande giornalismo. Perché lasciarsi andare davanti all’avanzata del digitale è, nel cuore di molti lettori, una resa troppo amara da mandare giù.
Guardando all’estero, basta l’esempio degli Stati Uniti per capire che le cose vanno – se possibile – persino peggio. Qualche mese fa ha chiuso per mancanza di soldi il New York Sun, un piccolo giornale tutt’altro che ininfluente: l’ex governatore dello stato di New York George Pataki l’ha definito come «il migliore giornale di New York», con buona pace del New York Times. Lo stesso Times che, dopo aver ipotecato il suo nuovo lussuoso grattacielo progettato da Renzo Piano che ospita la redazione, qualche giorno fa ha rotto uno dei suoi principî più sacri andando in stampa con una fascia pubblicitaria ai piedi della prima pagina (accorgimento già adottato anche dagli altri colossi Wall Street Journal, Usa Today e Los Angeles Times, con il solo Washington Post a resistere, per il momento). Il Tribune Group, proprietario delle corazzate Los Angeles Times e Chigaco Tribune, è collassato. Tra tutto questo, il senatore democratico del Connecticut Frank Nicastro, sta conducendo una battaglia - al grido di «i giornali sono una parte vitale degli Stati Uniti» - affinché si trovino i soldi per salvare il Bristol Press, quotidiano della sua città, a dimostrazione della forte considerazione di cui gode la stampa locale. In generale, laggiù la tendenza è quella di sperare che gli aiuti di stato piovano su altri settori (ad esempio, quello dell’auto che boccheggia e chiede aiuto da tempo), in modo tale da avanzare la richiesta di un bailout anche per quello della stampa. Rimane certo da convincere l’opinione pubblica dell’utilità di questa battaglia, la stesse persone che da tempo sembrano aver voltato le spalle ai giornali.
Il motivo del pessimismo che circonda il mondo della carta stampata è da ricercarsi, ovviamente, nella crisi economica. Ma non solo. Come già detto il digitale gioca una parte importante nella partita. Permette, a costi nettamente inferiori rispetto alla carta, un ciclo di news praticamente ininterrotto, fruibile e soprattutto alimentabile – mediante fenomeni ‘non professionali’ come il citizen-journalism – da qualunque parte del mondo in un qualunque momento della giornata. All’apparenza non ci sarebbe storia: niente carta (da sempre, una delle voci che pesa di più nei bilanci delle imprese editoriali), solo contenuto. I giovani ne vanno pazzi, e infatti non leggono più giornali cartacei. Sopravvive la passione per il quotidiano tradizionale in chi durante la sua vita di lettore ha vissuto lo switch tra analogico e digitale ed è quindi già abituato al ‘vecchio’ formato; ma anche in questi casi è registrata disaffezione nei confronti della parola scritta, segno di un indubbio abbassamento della qualità. Anche la spesa gioca un ruolo decisivo: molti contenuti digitali, infatti, sono gratuiti. Gli stessi siti dei quotidiani mandano sul web una fetta enorme di articoli scritti ad hoc, lasciando al lettore la facoltà di pagare per leggere quelli già pubblicati su carta, mediante la sottoscrizione di speciali tipi di abbonamento.
I siti dei grandi quotidiani producono però, in generale, un’informazione di tipo certificato, grazie alla lunga tradizione della carta stampata insita anche in chi si occupa della parte web. Il vero pericolo, nel digitale, è quello proveniente dall’informazione non professionale – il già citato «citizen-journalism» – troppo spesso elevata a livelli di attendibilità che nemmeno quella tradizionale. Non è ovviamente possibile e nemmeno giusto fare di tutta l’erba un fascio, ed esistono molti siti indipendenti che forniscono notizie vere e certe con un tempismo e una flessibilità che il medium di carta, per sua natura, non può avere. Esistono però anche siti che pubblicano bufale, riprese puntualmente dalla stampa cartacea il giorno appresso. E qui si presenta la preoccupazione maggiore: la bufala digitale è ripresa come certa dalla stampa tradizionale, contribuendo a un abbassamento della qualità e a un impoverimento dell’informazione. In altre parole, il mezzo cartaceo, per non soccombere dinanzi al fratello digitale sempre aggiornato, normalizza la sua informazione su quella di quest’ultimo, abbassandola.
A sentire alcuni, sembra che l’unica vera fortuna della carta rispetto al digitale sia la raccolta pubblicitaria (colpita però dalla crisi economica). A differenza di quanto si crede, ciò non deriva dal fatto che chi compra uno spazio pubblicitario preferisca necessariamente farlo su carta; semmai è perché non si è ancora riusciti a sfruttare al meglio la raccolta pubblicitaria su internet. Viene quindi da pensare a cosa accadrà il giorno in cui, economicamente parlando, la raccolta pubblicitaria sul web renderà almeno quanto quella su carta. A voler fare un’analogia con un altro settore che risente parecchio della concorrenza del digitale anche per via della pirateria – l’industria musicale – lì siamo già avanti: la Atlantic, una divisione della Time Warner, ha dichiarato che nel 2008 i dischi venduti on-line hanno rappresentato il 51% del fatturato complessivo della vendita di musica.
Davanti a questo quadro pessimista, e all’abbassamento della qualità del mezzo cartaceo, c’è però chi non demorde e continua a proporre (con successo) una formula editoriale il più tradizionale possibile. E senza sentirsi una vittima del mondo digitale. Sto parlando del mensile Monocle. Fondato dal quarantenne Tyler Brûlé, già editorialista del New York Times, dell’International Herald Tribune e del Financial Times (imperdibili le sue column su trend e aeroporti sul FT-Weekend) nonché fondatore di Wallpaper*, Monocle si pone come un «global briefing» su avvenimenti, business, cultura e design. E fa tutto ciò con la consapevolezza della crisi nel settore, ma offrendo a un sempre più vasto pubblico un giornalismo lussuoso e di alta qualità. Senza badare a spese: quartiere generale a Londra e sedi distaccate a Zurigo, New York e Tokio. Più un gruppo di uffici di corrispondenza in tutto il mondo; non esattamente la radiografia di un’impresa editoriale operante in un momento di crisi. Segno che la qualità paga, così come le intuizioni capaci di assecondare la richiesta di un pubblico adoratore della carta stampata (e sulle intuizioni di Brûlé non si devono aver dubbi: il suo Wallpaper* è uno dei magazine più influenti e interessanti lanciati negli anni ‘90). Monocle ha sempre dedicato ampio spazio al medium che lo fa vivere (si veda il volume 01 – issue 08, november 2007), e nel numero attualmente in edicola (volume 02 – issue 19, december 08/january 09) ritorna sull’argomento con due pezzi nella sezione cultura. Il primo, «The Watch Word» di Andreas Tzortis [pp. 93-96], ci racconta la terribile caduta della qualità della stampa tradizionale in seguito non solo alla diffusione di canali informativi alternativi e non professionali grazie al digitale, ma anche per via della velocità nella produzione e dei troppi compiti che il giornalista deve fronteggiare per via della co-esistenza e della interazione tra ‘nuovo’ e ‘vecchio’. Secondo l’articolo, troppi sono i compiti che gravano sulle spalle di un giornalista in tempi di convergenza analogico-digitale. «Oggi i giornalisti devono cercare una videocamera, muoversi per fare interviste e allo stesso tempo aggiornare le news sul web ed editare i loro pezzi, nonché mettersi al lavoro per l’articolo che uscirà sul giornale cartaceo del giorno dopo», si legge nel pezzo, e queste modalità serrate di lavoro non sono ottimali per il raggiungimento del risultato finale. Il motivo – dice Charles Fieldman, veterano dei reporter della CNN, intervistato nell’articolo – risiede nel «concetto di mettere insieme tutti questi lavori e allo stesso tempo pensare di fare un giornalismo ragionato», concetto ritenuto dallo stesso Fieldman «assurdo». Il secondo articolo, «Agents of Change» a firma dello stesso Tyler Brûlé [pp. 109-110], fa addirittura un passo avanti nell’analisi delle responsabilità, arrivando ad affermare che «dare la colpa solo al web per le scarse performance di quotidiani e magazine, significa assolvere quelle parti che in questa crisi hanno le colpe maggiori: gli editori e i loro collaboratori nella catena distributiva». Un’affermazione pesante, con la quale però sarà il caso di iniziare a prendere confidenza perché potrebbe rappresentare una parte consistente della verità. Brûlé lamenta che i proprietari dei giornali «hanno avuto troppa fretta nell’investire in siti internet che non avevano alle spalle piani ben studiati» e che, allo stesso modo, hanno agito troppo in fretta nel tagliare i costi di produzione del prodotto cartaceo, per di più «aspettandosi che il lettore pagasse di più per un prodotto che era stato impoverito» dai continui piani editoriali di ridimensionamento. La soluzione sarebbe quella di arricchire il prodotto tradizionale al fine di renderlo concorrenziale alla sua versione web, e per fare ciò l’editore deve mettere a capo dei suoi prodotti «gente che ama la carta stampata e sa quello che deve fare». Insomma, l’amore per l’odore, per la sensazione tattile e per il ruolo che da sempre ricopre la stampa, serviranno a salvarla. Brûlé cita ad esempio proprio la sua ultima creatura, nata per offrire al lettore qualità, scritti pregiati delle migliori firme mondiali, illustrazioni di gran fattura, storie uniche raccolte alla vecchia maniera, in controtendenza rispetto ai pastoni messi insieme con i lanci d’agenzia che riempiono i prodotti derivati dalla cultura del cosiddetto «digital freebie» e della free-press (individuata da Monocle come l’altro grande nemico della stampa tradizionale). Il giornale come opera d’arte, quindi. I gruppi editoriali però devono stare attenti a non sottovalutare, come detto, anche gli aspetti della catena distributiva. Insomma, secondo Brûlé bisogna creare dei punti vendita che invoglino l’acquirente a comprare il giornale offrendogli allo stesso tempo dell’altro. Permettendogli, ad esempio, di poter stare seduto a leggere, o scambiare due chiacchiere con qualcuno. Dandogli la possibilità di prendersi un caffè, insieme alla copia del suo magazine preferito. Nelle parole di Brûlé, questi devono essere «posti che vendano quotidiani, settimanali, mensili e anche caffè macchiato», dove la gente sia disposta «a passare del tempo e a spendere i suoi dollari, i suoi euro e i suoi yen». E dove la spesa sia accompagnata, se possibile, dalla consapevolezza che non si stanno dando soldi per qualcosa che co-esiste gratuitamente sul web, ma per un pezzo ‘unico’. Un’idea bizzarra? Forse. Monocle ha vinto in qualche modo la sfida: i suoi fedeli abbonati, disposti a spendere 75 sterline l’anno per la rivista (in Italia è venduta a 10 euro la copia), sono oltre 150 mila ed è appena stato inaugurato a Londra, in George Street, il primo Monocle Store, che vende anche tutta una serie di prodotti collaterali (vestiario, accessori e profumi) oltre alle migliori testate internazionali. Proprio nel modo descritto da Tyler Brûlé. C’è qualcuno là fuori disposto a prendere esempio?

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4 Commenti:

Anonymous Anonimo ha detto...

Grazie Ordine Generale per avermi risposto nei commenti su Guia Soncini.A proposito della crisi della carta stampata vorrei dire sommessamente una mia sensazione:è il conformismo che,uccidendo le idee, uccide fantasia, curiosità e vivacità. Oggi 19 Gennaio 2009 sul Corriere della Sera un articolo di Paolo Giordano è quanto di più conformista si possa immaginare: non credevo ai miei occhi. Se una persona vince il premio Strega non è detto che debba discenderne altre attitudini. Può essere giovane di anni ma non di idee. Spero di non aver detto cose inopportune perchè non è certo lo scopo del mio intervento, è che sono innamorato della carta stampata e mi dispiace vederla soffrire. Grazie e buon lavoro. Ulisse.

6:10 PM  
Anonymous SAMUELE ha detto...

ORDINE GENERALE PERCHE' COMPARE UNA SORTA DI PROTEZIONE PER CHI VOGLIA LASCIARE COMMENTI? SARA' LA TRENTESIMA VOLTA CHE PROVO E DEI MIEI AMICI HANNO FATTO LA STESSA COSA. VEDIAMO SE QUESTO VA ABUON FINE E PORTA PAZIENZA SE L'INTENZIONE PRIMARIA ERA QUELLO DI SCRIVERE PER GUIA SONCINI CONVINTI COME SIAMO IN TANTI CHE UNO DEI MOTIVI DELLA CRISI DELLA CARTA STAMPATA SIA DA RICERCARE NELLA COAZIONE A RIPETERE PECCATI DI PENSIERI OPERE ED OMISSIONI. GRAZIE E CORDIALI SALUTI. SAMUELE

10:47 PM  
Blogger ordinegenerale ha detto...

Gentile Samuele,
la sorta di "protezione", come la chiami, serve per evitare che gli spammatori lascino la loro posta spazzatura nei commenti. Siccome per farlo usano programmini automatici, e non spammano a mano, il dover inserire un codice serve appunto per impedire a questi programmini di portare a termine la loro fastidiosa operazione.
E' una misura di tutela tanto semplice quanto funzionale. Non mi sembra così difficile da utilizzare da impedire di postare nei commenti.

Saluti

12:20 PM  
Anonymous rebecca ha detto...

e come si fa a spammare a mano? vediamo se ho fatto bene. volevo esprimere la mia malinconia perchè non ritrovo nella carta stampata, da me tanto amata, le emozioni che una volta mi procurava. leggevo non il giornale in senso lato, ma la tale firma che poteva essere questa o quella, le cui idee potevo condividere o no, ma mi arrichivano e mi davano gioia. adesso guardo i titoli e leggiucchio qui e là. punto. ho provato a fregarmene, ma non riesco. e in questo panorama di aurea mediocritas rimpiango i bei tempi che non sono molto lontani caro ordine generale perchè se vogliamo fare una mano di conti, sono iniziati da quando giornali di nicchia come il foglio hanno preso strade diverse.

9:53 PM  

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