venerdì, febbraio 20, 2009

E' uscito Wired Italia e se non lo comprate siete dei pazzi.

È uscito Wired Italia e, come ogni volta che un’avventura editoriale ha inizio, siamo felici. Anzi, questa volta lo siamo di più, e per vari motivi. Primo, finalmente dopo qualche tentativo passato anche in Italia abbiamo uno di quei magazine che possono avvalersi della nomea di «bibbia». Secondo, il suo direttore Riccardo Luna è persona in gamba, temeraria come può essere solo chi fortissimamente volle questa impresa, e rispettabilissimo giornalista; per dire di che pasta è fatto: far uscire un giornale del genere in periodo di enorme crisi economica è pura follia, farlo e dirsi convinti (tanto da confidarlo ad uno dei massimi dirigenti del gruppo che edita il magazine, la Condé Nast) che la crisi è il momento giusto per un giornale come Wired va oltre, è puro genio artistico. Terzo, le premesse sono ottime, il primo numero è spumeggiante, la grafica sbalorditiva, i contenuti ricchi, le «idee» raccontate a mo’ di «storie» (entrambi i virgolettati sono cifre stilistiche del giornale) ci sono tutte, la redazione è snella e dinamica (poche persone, tanti collaboratori) e via dicendo – insomma, medito l’abbonamento e l’acquisto di qualche altro scaffale sopra il quale posare l’edizione completa.
Epperò, a Ordine Generale piace fare le pulci, e qualcuna è stata trovata e qui elencata senza il limite del numero di battute, a uso e consumo del lettore e dell’aggregatore a grafo nella community wewired.it, il quale promette spazio a chiunque inserisca in un suo testo la sequenza di parole «wired italia». Per iniziare, c’è il prezzemolino della stampa italiana che conta, Luca Sofri, che quando ho visto il suo faccione nell’elenco dei collaboratori ho avuto un colpo: compri Vanity Fair e lui c’è; compri Internazionale e lui c’è; compri Il Foglio e (a volte) lui c’è con delle definizioni copia-incollate da Wikipedia; prendi in mano la Gazzetta dello Sport anche se non te ne frega niente, giusto perché sei sicuro che lì almeno non corri rischio, e invece chi ci trovi? A questo giro parla di tecnologia, firma un articolo che sembra essere un manifesto del perfetto lettore di Wired, e il risultato è per giunta brillante e interessante; c’è odore di competenza, se non altro, anche se di derivazione «smanettona» più che accademica, e viene evitata quella sorta di tuttologia che lo contraddistingue solitamente, o che lo porta a svernare di musica quando sarebbe meglio lasciar perdere (ma a dar manforte in questo senso c’è la moglie, Daria Bignardi, amica un po’ di tutti, che una volta in televisione a chi accusava il marito di essere un «nerd musicale» controbatté definendolo «grande esperto di musica», e meno male che il libro Playlist (Rizzoli) parla da solo). C’è poi Linus, amico del Sofri, che tiene una rubrica sulle corse, le maratone, insomma le uniche cose che, da un po’ di tempo a questa parte, sembrano emozionarlo veramente – con buona pace della radio; ma io volevo Wired, non Runner Magazine, e poi la Strongmen Run descritta nell’articolo non ha niente di tecnologico, non è un idea, non ha futuro e sembra più quel corso di sopravvivenza provato da Renato Pozzeto e Enrico Montesano nel celebre film Noi Uomini Duri (1987). C’è anche Paolo Giordano, il tizio che ha vinto il premio Strega con il libro La Solitudine dei Numeri Primi (Mondadori), il quale intervista RLM (Rita Levi Montalcini, cui è dedicata anche la copertina); non si capisce bene se trattasi di un collaboratore fisso oppure di uno passato lì per caso e tirato dentro perché, per creare hype crea hype. C’è Al Gore – Dio ce ne scampi! – che fa un pippone sul ruolo dell’informazione nell’era di Obama, e povero Barack che con tutti i problemi che ha si deve far carico anche di quello del giornalismo partecipativo e iper-connesso (e ovviamente eco-sostenibile) e unico strumento d’informazione del futuro: lo credevo anche io, sinceramente, e sotto sotto lo credo ancora seppur quotidianamente là fuori fanno di tutto per dimostrare il contrario. C’è Coelho con una column sul ruolo di Internet come enorme biblioteca; lui ha deciso di non tenere in casa più di 400 libri tradizionali, intesi come di carta, e sono già troppi e non li consulterà mai perché se dovesse andare a cercare i versi di una poesia gli basta digitare in Google un frammento a memoria per avere a disposizione, sempre, il testo completo ovunque si trovi (la morale che ne trae, fortunatamente, non è che i libri non servono a nulla ma che, dopo averli comprati, bisogna regalarli, farli girare – lui è tanto fiero quando gli portano da autografare un suo libro con i bordi sgualciti e le pagine ingiallite. Al limite, dice, donateli a una biblioteca pubblica). Poi ci sono gli ottimi articoli e gli ottimi collaboratori (tanti tecnofreak, ma non solo), ma quelli non si citano, ve li lascio da scoprire. Ci sono tante «storie e idee che cambiano il mondo», per usare le parole del sovra-testata e dell’editoriale del direttore. Solo non si capisce quanto possa cambiare il mondo il fantastico bollitore Tefal, di cui si parla a pagina 222. Per ovvi motivi da ricercarsi nel fatto che il nostro Paese non brilla per consumo di tè l’aggeggio non è distribuito in Italia – ma tanto lo compriamo su Amazon, noi super-connessi-duepuntozero – e promette di far bollire l’acqua in pochi secondi. A parte che mentre aspetto che bolla l’acqua, nella maniera tradizionale, posso sempre approfittarne per fare un post su Twitter, o per aggiornare il profilo di Facebook, o per consultare uno degli ottimi contenuti esclusivi sul sito Wired.it. A parte questo, si diceva, secondo me è una cosa inutile, atta a peggiorare il mestiere anziché a migliorarlo: a meno che si tratti di un acceleratore di particelle, in tre secondi l’acqua che viene giù potrà essere tiepida, al limite anche calda, di sicuro non bollente – e il tè si fa versando l’acqua bollente sulla bustina. Ecco, non vorrei che sia stato dichiarato rivoluzionario (cioè meritevole di finire su Wired) solo perché l’ha testato Matteo Bordone, amico del Sofri.
Spiritosaggini a parte, la stima e la fiducia sono tante. Per fare un parallelismo con un’altra celebre importazione recente, Playboy, qui si è mantenuto lo stile dell’originale e si è creato un ottimo prodotto, mentre là si abbonda con il contorno ma manca la portata maestra: la patonza. Solo un piccolo fastidio, di gran lunga superiore a tutti quelli appena elencati messi insieme: gli emoticons (o «le» emoticons – si potrebbe chiedere agli esperti dell’Accademia della Crusca che, genialmente, sono stati coinvolti in Wired per spiegare alcuni termini tecnologici) lasciatele sul web. Se qualcuno vi scrive lettere con le faccine, editate o cestinate: non sono riuscito a leggere la rubrica della posta, e di conseguenza a misurare il polso dei lettori – sulla fiducia, beninteso, perché sono stati pubblicati quelli che hanno scritto ancor prima di aver letto mezza riga.
Un bacio e un in bocca al lupo. Benvenuti, già vi adoro un po’.

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