sabato, novembre 26, 2005

Musicalia / Ho incontrato Diamanda Galas e mi sono innamorato

Il 25 novembre Milano è fredda. Il cielo è grigio, la temperatura è intorno allo zero e nevischio ghiacciato per tutto il giorno cadrà sulla città meneghina. Sembra quasi che qualcuno abbia voluto preparare alla perfezione il clima per la – ennesima – calata italiana di Diamanda Galas e, detto per inciso, ci riesce alla perfezione. Non conosco in modo approfondito l’opera della Serpenta – come lei si definisce – quindi mi sono preparato all’incontro avvenuto nell’auditorium Villa Simonetta della Civica Scuola di Musica di Milano con spirito di apprendimento più che altro. Pensavo anche che mi sarei trovato davanti una persona spocchiosa; chissà perché nella mia mente l’immagine di lei era questa: forse le interviste che nel corso degli anni ho letto, le sue dichiarazioni al fulmicotone, o forse la sua immagine. Sta di fatto che vengo smentito non appena la nostra fa ingresso, accompagnata da un applauso, nell’auditorium. La donna che infatti mi trovo davanti e che parlerà per le successive 5 ore è l’opposto di quanto la mia immaginazione aveva fruttato. Sorride, è incredibilmente loquace e appena inizia a parlare le sue parole inondano la sala e sembrano non voler più smettere. Non è bella, Diamanda Galas. Non bassa ma decisamente più di quanto le foto mostrano, 50 anni esatti, capelli lunghi e di colore nero corvino, corpo esile, occhi con poco trucco rispetto a quello che siamo abituati a vedere nelle immagini sui giornali, la nostra possiede però un qualcosa che ti porta a non staccarle più gli occhi di dosso, qualcosa che la rende incredibilmente affascinate. L’incontro, avvenuto in occasione della consegna alla cantante del premio Demetrio Stratos, verte su tutto ciò che la può riguardare: dal tema dell’esilio al processo creativo che la porta alla formazione dei suoi brani. Dalla poesia alla filosofia. Da aneddoti divertenti e irripetibili, a proclami vagamente femministi che tutto fanno tranne che infastidire. Spiega il suo ultimo spettacolo, Defixiones: will and testament, basato sulla declamazione di poesie di poeti stranieri, in lingua originale, che riunisce così le composizioni di poeti greci, spagnoli, e siriani, tra gli altri. E fa niente se i critici questa cosa non l’hanno capita: Diamanda non traduce, e lascia all’intelligenza dello spettatore la lettura di un libretto contenente i testi con la traduzione, con la certezza che se non ti prendi la briga di farlo, lei non ci metterà nulla a darti del “fucking idiot”. Parla del tema dell’esilio, delle categorie emarginate, e si scaglia contro i paesi che prevedono pene corporali – morte e pratica della muratura sui vivi comprese – per gli omosessuali. D’altronde persino il suo corpo fa intendere quanto a lei il tema dell’esilio sia caro: sulle falangi delle dita della mano sinistra ha tatuato un inequivocabile “We are all HIV +”, in segno di solidarietà verso le persone affette da Aids e ricordo del suo impegno presso ospedali di cura per malati terminali (oltre che segno di dolore personale: in passato ha dichiarato che molti dei suoi amici sono malati di Aids). Diamanda poi, sollecitata dalle domande dei numerosi partecipanti, parla del suo processo creativo, di come l’idea prende la forma di canzone, sia che si tratti dei suoi pezzi di chiara derivazione blues (musica che, grazie al padre musicista, ha assorbito alla perfezione) o che in ballo ci siano le sue fantastiche e spettrali sperimentazioni vocali, che portano ad una “liberazione della voce” ed a esperimenti, se non proprio di polifonia tout court, sicuramente di distorsione vocale e di arricchimento armonico della voce. Dice dunque che per lei è fondamentale partire dal testo per poi arrivare – a seconda di esso – ad una base musicale (portando l’esempio opposto del fratello, capace di aggiungere un testo a qualunque melodia già esistente). Parla della sua collaborazione con John Paul Jones, ex bassista dei Led Zeppelin, con il quale ha fatto un disco nel 1994, The Sporting Life, avente come tema l’uccisione degli uomini; basso, percussioni e sintetizzatori “and no fucking guitars”, come specifica fiera, e nessuna concessione al commerciale, come invece qualcuno ha provato ad insinuare con una domanda punzecchiante. Si sofferma a lungo a parlare della sua voce, del suo strumento più prezioso (quasi come se il pianoforte che, tra le altre cose, suona magistralmente, fosse per lei uno strumento di secondo piano). Dice che ha imparato le tecniche da un prete – che si autodefinì l’unico in grado di conoscere gli strumenti per far progredire la tecnica vocale, a differenza di tutti gli altri maestri che nulla fanno tranne rovinare le corde vocali – e che tuttora si esercita ogni qual volta riesce, perché per lei è “molto importante tenersi in allenamento; come uno scrittore deve continuare a scrivere e un boxeur a tirare pugni, così un cantante deve cantare continuamente per affinare la sua tecnica e migliorare la sua voce”. Parla a lungo di come sul suo corpo abbia imparato a sentire i giusti punti di risonanza delle singole note e di come anche ora ci sia un personal trainer – da lei chiamato in una delle sue continue incursioni nella lingua italiana “maestro della voce”, ovviamente senza allusioni alla PFM – che la segue nei suoi allenamenti e che lei considera fondamentale. Sempre riguardo alla voce, sollecitata da una domanda di una persona che le chiedeva se è vero quello che i medici dicono, ossia che per una questione ormonale col passare degli anni la voce delle donne tende a diminuire fino a quasi sparire del tutto, risponde come di consueto in modo abbastanza piccante, dicendo di “odiare tutti i medici perché sono uomini e chissà come mai hanno pazienti donne. E come hanno inventato le creme vaginali per le donne avanti con l’età, così potrebbero inventare dei fucking hormons – ormoni del cazzo – per la gola da assumere tramite gargarismi e risciacqui”. Insomma, un personaggio magnifico e decisamente fuori dalle righe. Riguardo alle collaborazioni con altra gente – oltre al già citato John Paul Jones, a livello mainstream si ricorda la collaborazione con Alan Wilder, ex Depeche Mode, per lo spazio di un disco, Liquid – lei chiude ogni porta a riguardo: collaborare con altri cantanti non le interessa, e visto che è già lei a sperimentare la voce, preferirebbe collaborare con sperimentatori musicali. Ma non parlatele degli Einsturzende Neubauten di Blixa Bargeld, perché dall’alto della sua classe vi sentireste rispondere che lei “è troppo vecchia per fare la baby sitter”. Fa impressione vedere quale effettivamente sia il suo pubblico, davvero variegato è trasversale rispetto a qualsiasi genere o classe sociologico/sociale. Diamanda stessa afferma, con un certo – e invidiabile – orgoglio, che la sua audience è assolutamente “individuale, ognuno che pensa con la propria testa ed è inammissibile in qualunque categoria”. E impossibile darle torto: si va dagli estimatori di musica colta, ai consumatori di musica popolare al pubblico goth, con il quale lei stessa in più di un’intervista ha ammesso di avere un rapporto speciale, nonostante non si senta per niente un personaggio gotico e sempre nonostante prediliga vestirsi di nero – perché “mi copre e mi rende invisibile in mezzo agli altri” ha affermato a Milano -, con l’unica eccezione sulla cover del disco The Sporting Life, dove si presenta con canottiera rosso fuoco e trucco da cannibale. Davvero un bel seminario quello di Milano, che finalmente ha portato un’artista decisamente non convenzionale – anzi, spesso scomoda se non addirittura blasfema – come Diamanda Galas in un ambiente di musica colta, compiendo quindi una sorta di “sdoganamento” culturale che, per coloro che ancora non conoscono a fondo l’opera dell’artista mezza greca e mezza americana (nata a S. Diego da genitori greci), non può portare che giovamento e arricchimento. Ma una nota dolente c’è stata, purtroppo, e come di consueto riguarda l’organizzazione: filmati che non partivano hanno causato mezzora di ritardo all’inizio del seminario. Ma se l’inconveniente tecnico è sempre in agguato, decisamente meno giustificabile l’operato di un’interprete quantomeno imbarazzante. “I’ve got friends in Turkey” dice Diamanda. “Ho molti amici in Turchia” ribatte l’interprete e la Galas, immensa come non mai, con una mistura di italiano e inglese la guarda e, con ghigno malefico, le dice “Non ‘molti’, just ‘a few’” – e stendo un velo pietoso su altri ben più eclatanti casi di traduzioni errate. All’uscita dalla sala il cielo è ancora grigio e palline di neve congelata continuano a scendere, come a voler accompagnare Diamanda Galas dall’auditorium all’albergo, garantendole il paesaggio più adatto alla sua attraversata.


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