Il rock è morto, e l'hanno ucciso i bambocci che si inventano le etichette - trattazione tragicomica sul math-rock e i suoi stupidi fratelli
The Hellacopters, “Rock and Roll is Dead” copertina (2005, Universal Music/Wild Kingdom) – uno di quei gruppi che suonano rock and roll, senza masturbarsi troppo.
Rifacendo ordine nella mia privatissima collezione di dischi, mi prende sempre un gran desiderio: andare a cercare in tutte le portinerie internet, in ogni chiacchiericcio sparso per la rete, in qualunque forum, qualunque newsgroup, qualunque blog – al netto della mia allergia per i blog – cosa ne pensa la gente di certi tali dischi da me posseduti e riascoltati dopo tanto tempo e magari riscoperti come dei piccoli capolavori.
[a titolo puramente esemplificativo: oggi il tempo è quello che è, mi sono svegliato presto, ho svolto con enorme disinvoltura la pratica con su scritto “mazzetta dei giornali” e mi sono messo a rimirare lo scaffale dei dischi; così, buttato un occhio fuori dalla finestra e visto che di sole manco a parlarne, ho estratto Jesse Malin “The Heat” (One Little Indian, 2004) dallo scaffale, l’ho infilato nel lettore e mi sono riempito la bocca di quel suo mood malinconico].
Dicevo: cosa ne pensa il pubblico di certi dischi? Il pubblico qualunque, il popolo bue che infesta le piazze virtuali di giudizi sui quali purtroppo troppa gente è solita poi basare il suo acquisto nel negozio. Insomma, il ventre della musica, quelli che non scrivono sul Corriere della Sera pur avendo – e il che è tutto dire – più titoli di chi lo fa; gente che non verga per Rolling Stone e, in verità, nemmeno lo compra, perché “le recensioni lì fanno un po’ cagare e poi delle pagine di moda non me ne frega un cazzo; molto meglio Blow Up o Il Mucchio, dove ci trovo i dischi che mi piacciono recensiti come dio [la minuscola non è mia] comanda”. Ecco, appunto, volevo un giudizio da gente che compra e, si presume, legge Blow Up e Il Mucchio non perché è obbligata a farlo ma perché vede in quelle due testate-partito delle guide fondamentali ad orientarsi nel panorama musicale contemporaneo. Si parte da Google, come sempre, e di Jesse Malin alcuni ne dicono bene e altri ne dicono male: è così ovunque, in America come in Europa, anche se in America lo trattano più come fenomeno mal riuscito, mentre in Europa è l’esatto opposto – inutile dire che in brevissimo tempo mi sono perso.
Finisco, non so nemmeno come, sul forum di un noto sito italiano specializzato in rock – semplicemente (o così penso) rock. Scorro i titoli – ops, thread, che potrebbero anche fucilarmi! – e mi soffermo brevemente su quelli che più mi interessano. Di Jesse Malin neanche a parlarne, ma a questo punto il mio interesse è altrove, anche se difficile dire esattamente dove. Dopo minuti di navigazione causale – ops, random, come scrivono sul Mucchio – la mia invero lieve attenzione viene attirata da un argomento interessante: “generi musicali”. Clicco, incuriosito, e il tizio – di cui ometto il nome, anche perché è preso da un artista che si è felicemente suicidato una vita e mezzo fa, lasciando un paio di dischi niente male, un pugno di b-sides ancora migliori, ha messo le pietre angolari per una corrente musicale intera e tanto basta per farvi capire che non si tratta di Kurt Cobain – il tizio, dunque, fa sapere al mondo intero che gli è venuta “la curiosità di capire da che tipo di ascoltatori è composto il forum”. Curiosità legittima, per carità, anche se probabilmente la chiave di lettura più corretta per decifrare il messaggio è contenuta nel verbo “capire”: dopo aver capito di che pasta sono gli altri frequentatori del forum lui deciderà se frequentare ancora o meno quella “bottega di barbiere” virtuale, dove si dice tutto e il contrario di tutto (il suo timore, va da sé, è che gli altri ascoltino merda e lui, con i suoi dischi eletti consigliati da BU e da IM, sia di un altro pianeta – ma che dico: galassia, come minimo). Il ragazzo con il nome del suicida aggiunge anche una piccola postilla – “i generi sono molto larghi per evitare confusione, visto che solo nel metal i sottogeneri sono infiniti” come a lasciar intendere che di sbrodolate non ne ha voglia. Noi si prende atto sollevati della cosa, ché non ci piace perderci in definizioni tanto cool da pronunciarsi quanto sterili nel contenuto. Vogliamo, invece, capire cosa ascoltano le nuove generazioni, cosa va nel mondo della musica in questo momento, magari senza fidarci dei due indici più indicativi che abbiamo a disposizione e che sono sinceramente insufficienti: le classifiche di vendita dei singoli su iTunes e “Back in the Usa” degli MC5 che gira in questo momento sul piatto del mio giradischi e che, per carità, è un gran bel disco ma è targato 1970 e mi rifiuto di credere che non ci sia nessuno disposto a bersi la roba che passa ora in giro.
Il ragazzo scrittore-sui-forum-dei-siti-musicali di cui sopra – lo chiamo ragazzo perché il suo nome (ops, nickname) contiene il numero “
Al netto dei romanticismi, proseguiamo. Ed è qui che inizia il vero casino, è qui che non ci si raccapezza più. È qui che vediamo il danno sociale che Blow Up e Il Mucchio Selvaggio hanno creato nei ragazzi, loro e la loro mania di trovare un’etichetta per ogni disco, un genere che sia sempre “nuovo” dove bastano tre secondi di maracas per far etichettare al recensore di turno il disco come “mariachi” – si leggano le riviste del 1996, quando i Cure fecero uscire “Wild Mood Swings” preceduto dal singolo “The 13th” che, secondo alcuni illuminati critici musicali, sembrava aver trasformato il gruppo di Robert Smith in una deliziosa banda di latino americano.
L’acquirente di musica, nella fattispecie siamo in ambito prettamente rock, ora non capisce più niente, è totalmente rincoglionito da generi e definizioni che trovano lo spazio di un mese – più o meno il tempo di durata del gruppo a cui il genere si riferisce – che l’unico risultato ottenibile è una sbornia colossale senza precedenti: per la rete ho trovato gente che “spara” come preferiti generi quali il “dream-pop”, lo “slo-core”, lo “shoegazer” (!!) e – tenetevi forte – il “math-rock”, definizione che a questo punto dovrebbe comprendere la musica creata con le Reti di Petri o con qualche altra diavoleria opera di accademici che evidentemente non sanno come investire i soldi che lo Stato offre agli atenei e si inventa nei laboratori le cose più disparate. Questo dice la logica, e invece, in accordo con Wikipedia, il math-rock è “a style of rock music, emerged in the late 1980’s. It is characterised by complex, atypical rhythms structures, stop/start dynamics and angular, dissonant riff”. A me sembra rock, nè più nè meno, magari con un 7/8 al posto del più banale 4/4 ma insomma, niente che abbia a che vedere con la matematica perchè altrimenti a qualsiasi jazzista gli daremmo come minimo il Premio Nobel.
Ecco, il problema del rock, esistono generi totalmente inventati che fanno sentire meglio chi li ascolta, diventa una cosa di elite, una buffonata colossale che deve essere ancora scoperta e che forse ha portato, definitivamente, alla morte del rock. Riflettiamoci: i King Crimson sotto questo punto di vista sono il più grande gruppo di math-rock sulla faccia della terra, ma nessuno si sognerebbe mai di chiamarli così, perché è una truffa, una pagliacciata per far vendere dischi che nessuno conosce – a parte a BU e IMS – e su cui le case discografiche devono farci una mesata o due di discreti guadagni. Chiamare le cose con il loro nome, per questi frequentatori di portinerie virtuali dove ci si ammazza per cercare di definire lo stoner diverso dall’hard-rock, è impresa ardua. Impossibile. Far loro capire che un genere musicale “canonico” è già una conquista dell’umanità, un compromesso storico inarrivabile, un chiaro esempio di progresso dell’uomo è come tirare giù un muro a craniate: no, non lungo, doloroso. Figuratevi quindi se proviamo a spiegare che un genere non è il risultato di un lavoretto di chissà chi, buono giusto per mettere una definizione che suoni la più stravagante possibile in calce ad una recensione che correrebbe il rischio di essere nient’altro che anonima senza l’accompagnamento di una categorizzazione strampalata. Figuratevi, ancora, se vogliamo provare a prendere in considerazione criteri quali quelli compositivi, quelli dell’ambito storico-sociale o qualunque cosa diversa dalle calze indossate dai bassisti di turno.
Qualcuno, nel finale ci prova: “perché non ridurre tutto a rock?” – si chiede un utente dotato di materia grigia. “perché rock fa troppo Vasco Rossi”, risponde quello invece ipodotato. Eccolo il problema di questa nuova generazione di ascoltatori tanto fantasiosi quanto snob: Vasco Rossi. Non si può dire che l’ultimo gruppo più sconosciuto e quindi trendy del momento è rock, perché io ascoltatore non sono come chi ascolta Vasco Rossi; io, cazzo, ho un background musicale di tutto rispetto, mica vado a sudare come un maiale in pieno luglio allo stadio di San Siro; io, che i dischi li compro solo da Buscemi e mica sull’iTunes Music Store; io, che mi ascolto Caravan ma non i Black Sabbath che “neanche mio padre”.
In conclusione, il miglior utente del forum, supplica disperato: “Franco Fabbri, se ci sei batti un colpo”. Ma Franco Fabbri, che ha definito il genere musicale come “un insieme di fatti musicali, reali e possibili, il cui svolgimento è governato da un insieme definito di norme socialmente accettate” [“una teoria dei generi musicali, due applicazioni” relazione presentata alla Prima Conferenza Internazionale della Iaspm, Amsterdam 1981, ripresa anche in Franco Fabbri “Il suono in cui viviamo”, 2004, Arcana, Roma, pag.52], ho come l’impressione che si tenga lontano da certe portinerie, più per il suo fegato che per altro. Fabbri parlava di “norme di tipo tecnico-formale” e di norme “semiotiche”. Mica di slo-core o di post-rock – quest’ultimo fantastico, che sottintende anche un pre-rock che tutti chiamano rhythm and blues e sono più di 50 anni che c’intendiamo che è una meraviglia.
Etichette: musica
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