La (lunghissima) lista di fine anno
C’è una cosa che tutti gli anni, alla fine dell’anno s’intende, c’è da fare. Non è un obbligo, ci mancherebbe. È una cosa figa? Può essere. Sono arrivato – dopo svariati anni – a pensare ad una cosa: è autocelebrazione. Come molte altre cose nella vita. Insomma, ci piace che la gente sappia di noi. Ci piace ancor di più essere noi a far sapere la gente. Incipit indelicato, convengo. Sta di fatto che la pratica diffusa dalla quale non si può scappare ad ogni fine anno è quella delle liste: la cosa più bella, la cosa più brutta, la miglior scopata, la peggiore. Il miglior film, il miglior libro. Tutte cose che portano via tempo in fase di compilazione – e fa nulla se, nel mio caso, oggi preferisco buttarlo un po’ via questo tempo, perchè il malloppo di lavoro da fare che ho davanti è enorme (e lo so, non sparisce da solo) – ma che alla fine il lettore vuole leggere. Partiamo dai libri? E partiamo dai libri:
Giampiero Mughini – Un disastro chiamato seconda Repubblica (Mondadori, 17 euro). Bello, bello bello. Poco m’importa se Mughini non vi piace perché frequenta gli zozzi salotti televisivo – sportivi sulle reti del Cavaliere. Nemmeno m’interessa se la montatura dei suoi occhiali Harry Potter style (eh sì, questa l’ho sentita da Abatantuono) vi fa sinceramente schifo. Resta il fato che il libro è, nell’ordine: istruttivo, ben scritto, divertente. E se siete insopportabilmente comunisti da tapparvi occhi et orecchi al solo sentire nominare Mughini, sono fatti vostri.
Giordano Bruno Guerri – Un amore fascista (Mondadori, 18 euro). Potevo risparmiarmi dal leggere l’ultimo libro di Gbg, come lo si chiamava amichevolmente ai tempi dell’Indipendente? Assolutamente no. Piccola mania: comprato il giorno dell’uscita, ma questo è davvero troppo personale anche per le liste di fine anno. Un grande storico italiano del fascismo, un grande libro che riesce a conciliare il documento storico con il romanzo.
Indro Montanelli – Senza Voce (Rizzoli, 9 euro). Di Montanelli si possono dire tantissime cose, e altrettante se ne possono leggere. Questa è una raccolta di editoriali, fotomontaggi e “interviste immaginarie” usciti sul quotidiano che fondò dopo essersi congedato dal suo Giornale,
E le benedette “Uova del drago” di Pietrangelo Buttafuoco (Mondadori, 18 euro) non le cito nemmeno? No, perché con le uova ho sempre avuto problemi di digestione. E sarà stata l’eccessiva ovazione, le eccessive recensioni, l’eccessiva aspettativa – montata da una settimana buona di rincorsa al libro, visto che la prima edizione, invero di poche copie visto che alla Mondadori non devono aver nutrito grandi aspettative per il debutto del fascistissimo Buttafuoco, subito andato in ristampa visto la grande richiesta – sta di fatto che non mi è piaciuto. Ma con riserve: ho promesso di concedergli un’altra possibilità durante le feste natalizie.
E ora toccherebbe ai dischi. Tanti, troppi come sempre. Giusto mix di nuovo – talvolta incredibilmente nuovo – e di vecchio – ancora talvolta incredibilmente vecchio. La butto giù, ma facciamo che al posto di una classifica è un elenco – e nemmeno completo di tutti i titoli acquistati durante il 2005, perché altrimenti intaso il blog – più o meno alfabetico (nel senso che mi giro verso la pila di dischi e mentre faccio uno scanning oculare dei titoli, cerco di dargli un criterio).
Babyshambles – Down in Albion (Rough Trade). Dovrebbe essere il primo in ordine alfabetico e, vi giuro, è una coincidenza il fatto che probabilmente lo è anche in gradimento. Peccato che Doherty continui a dimenticarsi di essere una mente musicale buonissima, e preferisca perdersi nel divismo autodistruttivo perfetto per mezze seghe come lo era Kurt Cobain (nonostante, fonte ultimo numero di Rolling Stones, abbia affermato che lui non farà la stessa fine. Speriamo) ma non per lui.
Bon Jovi – Have a Nice Day (Island records). L’ultimo album del rocker italo-americano – per il quale è giusto pensare che vostra cugina si bagni (o si bagnò) più di una volta al giorno – all’inizio mi è sembrato una gran chiavica. Poi con l’ascolto migliora, fino quasi a decollare in più di un episodio. E poi, mettiamocelo in testa, nessuno ha più il diritto di pretendere che Jon Bon Jovi e soci sfornino altri Slippery When Wet o New Jersey.
(The) Dresden Dolls – Omonimo (8ft. Records). Un bel duo, lei voce e piano, lui batteria. Musica da cabaret punk rock, pur non essendo per nulla punk rock. Ne ho parlato anche qui.
Kaiser Chiefs – Employment (Polydor). Paul McCartney li ha definiti la band più cool del momento in Uk. A me piacciono molto – ma molto, eh – di più dei Franz Ferdinand. Anche di loro ne ho parlato qui. I predict a riot! I predict a riot! – e mi rendo conto di due cose: a) con questo titolo la mia idea di procedere alfabeticamente è definitivamente tramonata b) quanto ci sto mettendo?.
Depeche Mode – Playing The Angel (Mute). Ma quanto è bello questo disco? Lo so, dicendo così butto via tutta la (poca) intenzione critica che avevo al momento di iniziare a scrivere in favore di una descrizione decisamente adolescenziale del disco. Ma, insomma, sono i Depeche Mode. TVB.
The Pogues – The Ultimate Collection (Warner music). Ubriachi di Guinness in un pub irlandese – non necessariamente in Irlanda. Però insieme a Joe Strummer (pace all’anima sua), e questo si necessariamente.
Tommy Lee – Tommyland: The Ride (TL Educations). Il terzo disco del superdotato batterista dei Motley Crue è davvero bello – il migliore dei tre, senza dubbio. Però dovete sentirvi in vena di roba fortemente commerciale, e dovete dimenticare che in un pezzo (la bella Goodbye) compare anche Nick Carter il quale, per chi non avesse avuto una figlia dodicenne nel 1997 o per chi non gli frega nulla, è il biondino dei Backstreet Boys. Verrete però ripagati da tutti quei giochetti che la batteria mostruosa di Tommy Lee riesce a tirare fuori – ricordandovi però che non siete al cospetto dello stile di un Ian Paice qualunque, mi raccomando, ché le lamentele non si accettano.
Dovrei aver finito con i dischi del 2005 – cioè, no, non ho finito, ma direi che quelli citati sono più che sufficienti per farvi un’idea dei miei ascolti. Urge però aggiungere la caterva di titoli storici acquistati quest’anno.
Partiamo dalla (ri)scoperta dei Pink Floyd: The Dark Side of the Moon (EMI, 1973) e The Wall (EMI, 1979, 2cd). Di uno ne ho parlato qui, dell’altro ancora no. E non intendo farlo perché dei classici non si discute, vi basti sapere che l’ho acquistato.
Frank Sinatra – 20 classics tracks (EMI). Raccolta che copre la prima produzione di The Voice. Acquistata per due lire su Ebay, un po’ perché mi mancava e un po’ perché “Sinatra was swinging, all the drunks they were singing, we kissed on the corner and danced through the nite” e così vi ho fatto anche gli auguri di Natale firmati The Pogues.
Deep Purple: Burn (EMI, 1974) e Perfect Strangers (EMI,1986). Due dischi che ho riscoperto, un po’ più bello ancora Perfect Strangers, il sound dei Purple da allora fino ad oggi. Invariato.
The Yo Yo’s – Uppers and Downers (Sub Pop, 2000) perché gli Yo Yo’s sono una gran bella band e perché la copia promozionale che possedevo iniziava a starmi stretta. Ad onor del vero degli Yo Yo’s ho acquistato anche l’ep di quest’anno – dimenticato nella lista sopra – che ha sancito la reunion (ma attenti che già si sono sciolti, o meglio sono scappati di nuovo tutti tranne Danny McCormack) Givin’ Up Givin’ Up (Undergroove Ltd) e che decisamente non compete col disco del 2000.
The Cure – Staring at the sea, the Singles (Fiction, 1986). Me l’hanno regalato al compleanno. Uno dei miei gruppi preferiti di sempre, riscoperti per quanto riguarda il periodo dark, dal momento che da un po’ li trascuravo.
Area – Caution Radiation Area (Cramps, 1974). Uno dei gruppi cardine del progressive – jazzrock italiano. Veri pionieri della sperimentazione sonora, con Demetrio Stratos alla voce. Secondo disco, anch’esso cresciuto dalla Cramps e all’ombra del casino che a Milano c’era in quel periodo (Santa Marta, il Movimento). Ottimo.
Eugenio Finardi – Musica Ribelle (Polygram, 1998). Raccolta di pezzi del periodo Cramps, me la sono ricordata perché la sto ascoltando adesso mentre scrivo. Cuba è fantastica, e Alberto Camerini suonava ancora la chitarra e ragionava – ma qui il caro Alberto lo amiamo per tutto: per la chitarra con Finardi, per Cosmici Cosmetici, per Rock’n’Roll Robot, per Angelo in Blue Jeans e persino per Sub Television Punx (così abbiamo coperto l’intera carriera).
The Velvet Underground and Nico – Produced by Andy Warhol (Polydor, 1967). È il disco con la famosa banana di Warhol in copertina. Prodotto dall’artista stesso, vedeva ancora tra i suoi protagonisti l’attrice tedesca Nico – andata via, così come Warhol, al secondo disco dei VU -. Stupendo. Il primo disco punk, il primo disco garage, il primo disco gothic e il primo disco con colonna sonora da film porno. Tutto in uno, offerta speciale. Il miglior back from the past che ho acquistato. All Tomorrow’s Party è sublime. Heroin è drogata (!). Direi che anche per i dischi basta.
Ultima categoria: tutto ciò che mi è piaciuto. Una voce sola: le foto di Simona Ventura apparse sull’ultimo numero di Vanity Fair (oggi nelle edicole) di corredo all’intervista. Diciamo che me la sbrigo così perché il cervello l’ho spremuto già troppo. Buone Feste.
PS: sicuramente ho dimenticato di citare dischi dei quali ho comunque parlato sul blog. Per cercarli vi basta cliccare qui. Troverete tutto.
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