martedì, luglio 08, 2008

Finanziamento pubblico all'editoria: io dico sì.

L’autore del blog Liberalista, ispirato da sinceri moti di liberalismo e di liberismo, si chiede se l’italiano medio lettore di quotidiani sarebbe disposto a pagare una copia del suo giornale 1,20 euro anziché l’euro tondo tondo che la maggior parte dei giornali italiani costa a copia. Il ragionamento che sta alla base della domanda è molto semplice: fatti due calcoli, in questo modo si potrebbe eliminare il finanziamento pubblico alla stampa senza che gli editori ci perdano, con conseguente diminuzione delle tasse a carico dei cittadini. Ciò che non si capisce è altro: i conti di Liberalista – e non abbiamo motivo di pensare che siano sbagliati – stimano in 30 euro annue – su circa 15.000 - la quantità di tasse versata a causa del finanziamento pubblico all’editoria da un capofamiglia operaio, quindi da un rappresentante del ceto «basso». Francamente non mi sembra una cifra che possa fare la differenza anche in un periodo di crisi – è traducibile, per dire, nella famosa formula «un euro al giorno» grazie alla quale lo stesso operaio poi si indebita comprando materassi, pentole, il trentesimo telefono cellulare, il mega televisore al plasma e così via, solamente che l’euro al giorno per il finanziamento pubblico alla stampa è da calcolarsi per un mese e non per quindici anni.

Ma sappiamo che è giusto l’assunto secondo il quale uno stato liberale deve sempre e comunque abbassare le imposte, seppur di un euro al giorno per un mese per i ceti più poveri. Ciò detto, l’idea di togliere il finanziamento pubblico ai quotidiani continua a non stare in piedi, e proprio a causa di quel pluralismo di voci – che Liberalista pone tra virgolette, quasi a volerlo screditare - fondamentale in una democrazia. In Italia sono pochi i giornali che continuerebbero a vivere, e dignitosamente, senza il finanziamento pubblico, e sono quelli che fanno capo a grandi o medi gruppi editoriali che rappresentano un singolo grande imprenditore quando va bene, o un enorme azionariato di interessi personali nell’altra ipotesi. Pensiamo a come sarebbe se, per dire, solo i quattro o cinque più grandi quotidiani nazionali – mi riferisco a Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa, Il Sole 24 Ore, Il Messaggero e forse ancora un paio – dovessero sopravvivere e tutti gli altri, tolto l’ossigeno fornito dallo Stato, si avviassero ad una lenta agonia per poi stramazzare al suolo: siamo sicuri che sarebbe meglio? Siamo sicuri che sarebbe lo stesso se, anziché avere tante voci magari piccole ma che contribuiscono ad un sincero dibattito, avessimo tanti megafoni conformati tra loro o referenti dei grandi azionisti che ne controllano i loro editori? Siamo sicuri che togliere il pluralismo di voci sia persino meglio che dileggiarlo mettendolo tra virgolette?

Scrive Liberalista a sostegno della sua tesi: «se nemmeno i comunisti comprano il manifesto, perché dovrei finanziarlo io?», e qui vengono richiamate tutte le cooperative e tutti gli organi di partito – veri o presunti, grandi o piccoli – che affollano il mercato editoriale italiano. Una premessa è comunque d’obbligo, e cioè anche i «piccoli» quotidiani non vivono solo di finanziamento statale: molti di essi, infatti, esauriti i soldi, chiudono o vengono assorbiti da altre testate (pesco, dal mucchio, l’esempio più clamoroso degli ultimi cinque anni, ovvero l’Indipendente nato e morto tre o quattro volte ed ora «reincarnatosi» in Liberal di Ferdinando Adornato).  Questo per dire che il rischio d’impresa continua ad esserci: segno che «se un prodotto tira», per dirlo con Liberalista, vive o muore sia esso finanziato o no. E poi, mi si segua, se io non voglio finanziare l’Unità perché sta anni luce da quello che è il mio pensiero, per quale motivo un lettore di Liberazione dovrebbe finanziare l’Opinione che, con tutto il rispetto per Arturo Diaconale e per il foglio spesso interessante che dirige, vende molto ma molto meno del manifesto, di suo perennemente a rischio chiusura? Il perché è molto semplice: perché in una democrazia è giusto che vengano finanziati tutti i giornali che ne abbiano i requisiti, indipendentemente da quello che è il mio pensiero politico, culturale o intellettuale. Semmai, bisognerebbe andare ad indagare proprio sui requisiti per accedere al finanziamento, e far sparire i fogli farsa utili solo a nascondere truffe ai danni dello Stato e che, non contribuendo al pluralismo di voci in vita, non contribuirebbero nemmeno al suo disfacimento in caso di morte. Ma è un altro discorso, molto diverso.

Forse ho  però capito dove si vuole andare a parare: c’è in ballo un equiparazione molto di moda nella cosiddetta «blogosfera», e cioè il desiderio di essere paragonati se non in prestigio almeno in funzione ai quotidiani «classici», senza considerare che sarebbe una sciagura se il mestiere di blogger pur preciso e puntiglioso – e, perché no?, bravo – andasse a sostituire quello del giornalista. Scrive infatti Liberalista che se non si vuole proprio eliminare il finanziamento pubblico all’editoria, allora lui troverà il modo di trasformare il suo blog in una testata politica e inizierà a prendersi il suo bravo finanziamento, che ha già quantificato in «5-6 milioni di euro». Al di là del fatto che per essere testata bisogna registrarsi al tribunale, e ci vuole un direttore responsabile e non è proprio una cosa semplice, mi viene solo un dubbio: e il povero operaio? Non vorrei che, iniziando ad abbeverarmi alla fonte, me ne fregassi della provenienza dell'acqua.

In un vecchio editoriale del Foglio, spesso citato a torto come l’emblema dell’inutilità del finanziamento pubblico all’editoria da parte dei soliti tromboni che poi vivono grazie al lavoro svolto per quotidiani finanziati dallo Stato, era scritto che «l’esperienza ultradecennale di un piccolo giornale d’opinione come il nostro, che vive anche grazie al contributo pubblico, dimostra che i soldi dello stato spesso garantiscono il pluralismo, tengono a bada le lobby e aiutano a restare indipendenti dalla folla» (Il Foglio, 20.06.2008 – pag.3). In questa frase sta spiegato tutto sul perché il finanziamento pubblico all’editoria è importante. E poi, quel «restare indipendenti dalla folla» mi garba proprio, associa l’idea di indipendenza ad una fugace spruzzata di anarchia e di sano conformismo (di questi tempi, il vero anticonformismo): io, noi, diversi dalla folla. Tu non trovi, Liberalista

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2 Commenti:

Anonymous Anonimo ha detto...

Ciao, innanzitutto grazie per la visita.
E grazie anche per avermi dedicato un intero post. :-)
A parte le battute, alcune mie frasi sono state volutamente provocatorie. E' ovvio che non ho alcuna intenzione di trasformare il mio piccolismo blog in una testata giornalistica. Anche se in realtà potrei farlo, e senza grandi difficoltà. Sono giornalista, perciò potrei esserne il direttore responsabile. Ho una piccola testata registrata al Tribunale (dormiente da qualche anno). Insomma, volendo sarei pronto a farlo. Ma il punto non è questo.
Io contesto il fatto che per pluralismo si intenda il proliferare di giornali che nessuno legge e che tutti indirettamente paghiamo.
Se i sussidi pubblici distorcono il mercato, non vedo perchè nell'editoria non dovrebbe essere così.
Se tutti facessimo così (questo era il senso della frase sui 5-6 milioni di euro, cioè quanto prendono quotidiani piccolissimi), cosa succederebbe? Guarda che i requisiti si trovano facilmente. Basta un direttore iscritto all'albo dei giornalisti, un editore (cioè chiunque sia in grado di aprire una ditta individuale e pagare l'iscrizione al registro della stampa), ed un legame con qualsiasi gruppo politico o pseudo-tale. Anche un'associazione creata all'uopo.

Se un quotidiano è ben fatto, preciso, utile e stimolante, avrà certamente successo. Se lo comprano soltanto 10.000 persone al giorno, che senso ha che ci lavorino 100 giornalisti? Si strutturerà sulla base del suo reale target, magari aumentando il prezzo, se non sopravvive con gli introiti delle vendite. Magari punterà sulla pubblicità (quasi assente da troppi quotidiani). Faccio un esempio che mi riguarda. Io apprezzo l'Opinione. Lo pago 1 euro, ma lo comprerei comunque anche se ne costasse 2, perchè è l'unico giornale liberale e mi fido di quello che ci trovo scritto.
Se vende 10.000 copie al giorno, però, vorrà dire qualcosa. Senza il finanziamento pubblco rischierebbe la chiusura? Probabile. Oppure, se l'imprenditore di rifrimento è serio e capace, cambierà qualcosa per restare sul mercato.

Un ultima cosa: lungi da me irridere un principio basilare come la libertà di stampa ed opinione. Chiunque deve poter esoprimere le proprie idee ed opinioni, o pubblicare notizie. Oggi esistono gli strumenti, praticamente gratuiti.
Lasciamo fare l'editore a chi ne ha la possibilità e la capacità, soprattutto quella economica.
Se poi qualcuno non ce la fa, pazienza. Arriverà qualcuno più bravo di lui. E' la vita.

Comunque, torna a trovarmi. A presto.

9:16 PM  
Blogger ordinegenerale ha detto...

Secondo me il tuo parere a riguardo è distorto da una cosa. Dici di apprezzare l'Opinione, di volerlo comprare anche ad un prezzo doppio e tieni in considerazione il fatto che, senza il finanziamento pubblico, potrebbe chiudere ma allo stesso tempo sei quasi sicuro che l'imprenditore dietro la casa editrice ci saprebbe fare e la cessazione delle pubblicazioni sarebbe scongiurata. Questo perchè, comunque, vende 10.000 copie. Ed è proprio qui che ti sbagli: vendesse 10 mila copia, sarebbe molto probabilmente come dici te. Il fatto è che ne vende meno, molto meno: nelle parole del suo direttore, durante la famigerata inchiesta di Report circa il finanziamento pubblico all'editoria, l'Opinione vende «all'incirca 3-4 mila copie» (dovresti trovare ancora il video su YouTube per la conferma). Dubito che in un paio di anni il giornale sia riuscito a più che raddoppiare le sue vendite, anzi: notoriamente, i dati di vendita dati dai direttori - e soprattutto in un contesto come quello dell'inchiesta, dove se dichiaravi di vendere pochissimo eri automaticamente sotto accusa - sono da prendere un po' con le pinze, in quanto gonfiatucci (anche Ferrara dice di vendere 12 mila copie del Foglio, ma dubito). Inoltre, per venduto spesso si intende anche il regalato (almeno, per la ripartizione del finanziamento pubblico il regalato conta come il venduto): ti assicuro che in una piccola radio locale hanno ricevuto - gratis - per tre mesi interi ogni giorno due (2!) copie de l'Opinione, ovviamente senza nè averne fatta richiesta nè conoscere la testata - me li leggevo io, intanto, visto che nelle edicole è dura trovarlo.
Detto questo, nessuno vorrebbe mai togliere una voce importante come quella di Diaconale - come dici giustamente tu, una delle poche liberali - dal panorama editoriale italiano, ma senza il finanziamento pubblico questo accadrebbe quasi certamente.
Ancora convinto che sia così tanto sbagliato? A questo punto preferisco finanziare anche il manifesto se serve ad avere tante altre testate.
Sacrosanto il discorso sulle testate fantasma, ma è un'altra cosa: lì si parla di fogli che non vengono distribuiti, che sono ad uso interno (ricordo una specie di quotidiano di una sigla sindacale) o che vengono addirittura distribuiti come volantini giusto per fare numero. Mi pare, tra l'altro, di aver letto che una delle prime proposte di Bonaiuti - delega all'editoria - sia stata quella di fissare insidacabili criteri quali la stampa e la distribuzione per poter accedere ai finanziamenti pubblici.

Saluti.

9:03 PM  

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