giovedì, ottobre 25, 2007

pernacchia.

L’allarme è rientrato, Levi pare aver chiarito. Nel frattempo, aggiungiamoci alla pernacchia che gli fa il Times.

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martedì, ottobre 23, 2007

"Il disegno di legge sull'editoria non tocca i blog", parola di Levi. Che ci suggerisce di esagerare con i guanciali (!)

Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, nonché autore del famigerato disegno di legge sulla riforma dell'editoria, dichiara apertamente che “in questa legge non ci si occupa di blog”. Una buona notizia, oltre al mezzo chiarimento di Gentiloni, dopo che nei giorni scorsi in Rete era esplosa la protesta (pur con qualche valida eccezione) contro il disegno di legge in questione – complice, ancora una volta lo devo notare con disappunto, la grancassa mediatica del solito Beppe Grillo, per l'informazione comune paladino dei blogger, anche di quelli che non si definirebbero tali e che con il comico niente vogliono avere a che fare.

Dunque dalle parole di Levi si evince che “il senso della legge per quanto riguarda Internet è quello di estendere ai giornali pubblicati su Internet le regole per i giornali pubblicati sulla carta stampata”, che al Roc si devono iscrivere “solo gli operatori professionali, quelli che svolgono come mestiere quello dell'attività editoriale” e che, in definitiva, “i blog o i siti individuali non sono oggetto della nostra legge”. Levi ha promesso anche che durante il primo incontro con la Commissione proporrà un'aggiunta alla disegno di legge proprio per chiarire meglio i punti toccati in questa sua dichiarazione all'Agr.

Solo una cosa, in conclusione, getta un po' di ombra sulla tranquillità che il sottosegretario avrebbe dovuto infondere in tutti quelli che hanno a che fare con blog o siti individuali. E questo po' di ombra lo troviamo in una delle dichiarazioni più tipiche della politica e del politichese italiani. Dice Levi che quelli che hanno un blog “possono stare non tra due ma tra dieci guanciali”. Ecco, l'iperbole dei guanciali mi è andata di traverso.

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Black Silt Stocking

Ci farà contenti in pochi, ma i dischi di Chrisma/Krisma saranno ristampati e messi in vendita dal 26 ottobre.

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lunedì, ottobre 22, 2007

rianimatelo.

Mi auguravo, ma per la verità senza troppe speranze, che con la direzione di Mario Giordano Il Giornale ritornasse ad essere leggibile, o per lo meno si schiodasse dalla posizione di peggior quotidiano nazionale. In una settimana i (piccoli) cambiamenti apportati sono stati in peggio mentre la linea editoriale appare in crisi.

domenica, ottobre 21, 2007

La Fontana di Trevi di rosso vestita l'ho trovata divina

Allora, il colorante usato per il gesto pare essere stato anilina: del tutto innocua sui marmi barocchi della Fontana di Trevi. L’azione è da considerarsi assolutamente non violenta, semmai goliardica ed addirittura artisticamente interessante e non solo perché una persona di buon senso ha visto i marmi risaltare grazie all’acqua rossa, ma anche perché eminenti personalità del mondo artistico (Ugo Nespolo su La Stampa, Vittorio Sgarbi sul Giornale) si sono mosse a difesa – artistica – del gesto.

Se di atto vandalico vogliamo parlare, andiamo a leggere il Codice Penale. Che all’articolo 635 comma1, numero 3 parla di “danneggiamento di cose di interesse storico o artistico, etc..”. Dal che si deduce che non vi è reato, neanche sforzato, visto che l’anilina non ha rovinato la Fontana e che addirittura già alle 22 “a tempo di record, la fontana era stata completamente ripulita”, come da resoconto orgoglioso del vicecapo del gabinetto del Sindaco, sig. Luca Odevaine.

Come giustamente ha fatto notare Vittorio Sgarbi, il Fontanone di rosso acquato ha scandalizzato i soliti tromboni, gli stessi pronti ad applaudire i fantocci impiccati di Cattelan, segno questo che in Italia per quanto riguarda il gusto artistico facciamo parecchia pena, e siamo pronti a seguire i “soliti” critici da newsmagazine nelle loro incensate spudorate.

Il segretario del Partito Democratico, nonché Sindaco di Roma nonostante le promesse, ha dichiarato: “Quanto è accaduto oggi alla fontana di Trevi è stato davvero molto grave. È un’offesa a Roma per fortuna senza gravi conseguenze. C’è gente che non perde occasione per dimostrare di voler male alla città”. Fermiamoci un secondo su quel “dimostrare di voler male alla città”. Allora, un azione condotta con 150 euro di budget [vedi intervista all’anonimo autore del gesto su Libero 21.10.2007, pag. 10], volta a mettere in imbarazzo mediatico la Festa del Cinema di Roma che è costata svariate volte tanto, senza per altro conseguenze né a persone né ad oggetti fisici (la Fontana di Trevi è tale e quale a prima, nessun segno di vandalismo) sarebbe da vedersi come azione compiuta da chi “vuole male” alla città? Che dire allora delle numerose accuse mosse proprio al sig. Sindaco, e arrivate spesso da suoi amici, di nascondere la merda di Roma sotto i tappeti? Questo vuol dire voler bene alla città? Oppure voler bene alla città vuol dire continuare a governarla pur avendo accettato un incarico politicamente non solo più importante ma anche più impegnativo, che inevitabilmente porterà ad avere meno tempo da dedicare all’Urbe? Oppure ancora, voler bene alla città vuol dire prendersela con azioni innocue come quella compiuta da questa – sedicente o no, non ha importanza, per quanto mi riguarda direi sublime e basta – “Avanguardia Futurista” e non far niente per le baraccopoli in periferia, e per non parlare di quelle sul Lungotevere?

Mi sfugge qualcosa.

Qui mi sono lasciato scappare un “ecco, magari solo alcuni”. Qui, invece, uno di quegli “alcuni”.

sabato, ottobre 20, 2007

Gentiloni: ddl sull'editoria da modificare [e i blogger, di grazia, non sono fessi]

va bene applicare anche ai giornali on line le norme in vigore per i giornali, ma sarebbe un grave errore estenderle a siti e blog!, così il ministro Paolo Gentiloni sul suo blog cerca di fugare ogni dubbio circa la nuova legge sull'editoria. Il che, come rassicurazione, suona decisamente bene.

Solo una cosa: sia Gentiloni che Di Pietro – avvolto nella solita nebulosità invece Levi – hanno recitato una sorta di mea culpa per aver dato anch'essi l'approvazione al disegno di legge seppur criticandolo dopo che i titolari di blog e di siti non considerabili prodotti editoriali hanno espresso le loro perpelssità. Scuse accettate, ci mancherebbe. Qualcuno però spieghi a Gentiloni e a Di Pietro – ed, eventualmente, anche ai prossimi che si metteranno in coda per le scuse – che non serve citare come colui che “ha lanciato l'allarme” (Gentiloni dixit) Beppe Grillo. Il quale non ha scoperto niente di niente. Mi rifiuto categoricamente di pensare che il popolo di Internet – espressione che semplicemente mi fa vomitare perché suddetto popolo lo è prima nella vita reale e solo dopo, e forse, in quella virtuale – non è così fesso sia da non poter riconoscere un disegno di legge quantomeno strampalato e ambiguo e sia da aver come capopopolo uno come Grillo. Ecco, magari solo alcuni. Ma non generalizziamo.

Iscriveremo i blog al Roc. Ma poi?

Di questa cosa del nuovo disegno di legge che dovrebbe riformare l'editoria ci ho capito poco. Non credo per limiti miei, ma per limiti che stanno nel (poco) tempo che gli ho dedicato. Ho letto sui giornali, sui siti specializzati (12), ho letto la sfogo di Beppe Grillo, ho letto l'opinione di celebri blogger – alcuni di essi, celebri nella vita pur senza un perché. Ho persino dato un'occhiata fugace al testo della legge. Poi ho letto un'opinione interessante e controcorrente. La mia idea, che mi riprometto fin da subito di argomentare meglio in un futuro quanto meno prossimo, con la speranza di mantenerla, la promessa – la mia idea, dicevo, è questa: la legge è una stronzata, che come idea ammetto non essere granché. Ed è una stronzata per molti motivi. Uno tra i tanti, uno tra i più coloriti: l'Italia fortunatamente non è la Cina, e dubito che agli italiani piacerà sentirsi come i cinesi. Poi ho pensato anche che la mia libertà di espressione verrà seriamente messa in discussione, ma non perché mi si potrebbe chiedere l'iscrizione al Roc – e qui dico: serve un direttore responsabile? Basto io, né pubblicista né professionista? - bensì perché regolamentare i blog – e più in generale i siti che forniscono “informazione” ma anche “intrattenimento”, come da testo della legge – mi pare una baggianata, per dirla con parole fin troppo carine. Ci piglieranno per il culo tutti, con o senza iscrizione al Roc. E ci piglieranno per il culo tutti anche se suddetta iscrizione sarà gratuita. E che, ovviamente, se nelle condizioni di poterlo fare, faremo tutti, perché altrimenti diremo addio ciascuno di noi al suo spazio – bello, brutto, intelligente o stupido che sia. In fondo è più o meno quello che avviene quando uno registra un dominio .it.

Ed è qui che mi è scattata una molla: io sono ospitato da Blogger, che è un servizio gratuito recentemente acquistato da Google. Non credo – ma non ne sono nemmeno troppo sicuro – che i suoi server, quindi le macchine che ospitano anche queste parole che ora state leggendo, siano in Italia. Inoltre il mio è un dominio cosiddetto di terzo livello: una sorta di “sottodominio” della piattaforma che mi offre il servizio, ovvero di Blogger e della digitura blogspot, essendo l'indirizzo di questo blog composto da nomedelblog.blogspot.com, quindi semmai della registrazione al Roc se ne dovrà occupare Blogger e non il sottoscritto. Una sola cosa mi spaventa: pare che dovrò essere responsabile non solo di ciò che vado scrivendo, ma anche di quello che sono andati scrivendo gli altri nei commenti e che io ho erroneamente trascurato: il che mi sembra una minchiata bella e buona, perché mi costringerebbe a mettere uno di quei moderatori automatici ai commenti che tanto odio, non bastando più il disclaimer che già potete leggere nella barra alla vostra destra.

Certo una cosa va detta. La legge è opera di Ricardo Franco Levi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all'editoria. E fondatore, nel 1991, del quotidiano l'Indipendente, tentativo di fare il Times londinese a Milano naufragato – e salvato poi da Vittorio Feltri – nel giro di qualche mese dopo aver esaurito l'ingente quantità di soldi che aveva a disposizione al momento del debutto. I motivi del naufragio, concordano gli studiosi di giornalismo e i giornalisti, stavano nelle scarse capacità del direttore-fondatore Levi di comprendere i meccanismi del mercato giornalistico italiano, dunque nel non capire che in Italia un giornale modello inglese, con i fatti separati dalle opinioni e con articoli che interessano solamente a 19 mila disperati – gli stessi che compravano l'Indipendente di Levi – è un tentativo fallito ancor prima di essere messo in moto. Ecco, la speranza è che naufraghi anche la nuova legge sull'editoria – oltre che il Governo che ha dato ad uno come Levi, la cui vita editoriale è costellata di insuccessi, la delega all'editoria. Non perché non ci vogliamo iscrivere al Roc, se necessario. E nemmeno perché vogliamo coprire di fango chiunque con parole poco carine. Ma perché non esiste che in un paese sedicente democratico quale l'Italia è o, secondo i Beppe Grilli della situazione, dovrebbe essere, un governo si permetta non di regolamentare ma di stringere per i coglioni il mondo della rete e la libertà di espressione. E poi, scusate, un blog personale, gestito da un privato, senza ragione sociale, senza dipendenti, senza niente di niente ma solo con un pizzico di passione, un paio di idee e molto tempo a disposizione, perché mai deve essere per legge paragonato ad un prodotto editoriale come un quotidiano cartaceo, ovvero ad un'impresa, con una storia, un compito, una redazione e quant'altro? Se il problema sono le diffamazioni, libertà di espressione non vuol dire libertà di diffamare, bensì libertà – e quindi agilità e facilità – di potersi esprimere. Il contrario di quanto affermato da questa nuova legge.

Per capire meglio il personaggio che ha le mani sull'editoria italiana, poco visibile ma con una fama inversamente proporzionale all'influenza che il nostro ha sul Presidente del Consiglio, Romano Prodi, un paio di citazioni:

Ha collezionato vistosi fallimenti, pensando invariabilmente di avere ragione [...] Al Sole 24 Ore fu subito chiaro che Ricardo e il giornalismo potevano fare a meno l'uno dell'altro. Era un cronista prudente, spontaneamente allineato al potere. «Ricky sta al giornalismo come Jovanotti all'opera lirica», dice un collega che lo conosce bene. [...] Ricardo lasciò il Corriere e, nel 1991, fondo l'Indipendente. Doveva essere un quotidiano anglosassone, i fatti separati dalle opinioni. Ricky riuscì a separare le opinioni dalle opinioni. Quando, in piena Tangentopoli, fu arrestato l'Ing. Carlo De Benedetti, scrisse un editoriale con due titoli. Uno in testa: «Perchè l'Ingegnere ha torto», l'altro al centro: «Perchè l'Ingegnere ha ragione». Mentre poi le procure arrestavano a destra e a manca, il giornale se la cavava con due colonne e non prendeva partito. Un surgelato. [...] l'Indipendente precipitò a 20 mila copia. Sei mesi dopo, Ricky fu cacciato. Rimise di tasca propria cinque miliardi di lire. Ma tuttora, gonfio com'è, continua a dire: «Ah, se mi avessero lasciato fare...». [...] Ora, dopo aver fallito come editore, giornalista e portavoce, Levi ha in mano noi della stampa.” [1]

Nacque alla fine del '91 sulla scia del britannico Independent con l'idea di farne un quotidiano di stile anglosassone, cool, distaccato, imparziale, neutrale. Il direttore, Ricardo Franco Levi, non poteva essere scelto meglio per la bisogna: gelido come il sangue di un pesce e vestito all'inglese o, per meglio dire, come un italiano crede che si vestano gli inglesi. Purtroppo anche un giornale venne fatto come un italiano crede che siano fatti i giornali inglesi, più che neutrale risultò neutro e senza anima.” [2]

Un morticino vestito bene” [3]

Note:
[1] Giancarlo Perna, “Levi , l'ombra di Prodi che fa collezione di flop”, Il Giornale, n. 248, 19.02.2007, reperibile qui
[2] Massimo Fini, “Giornale outsider in sapore di Lega”, Il Giorno, 28.06.1996
[3] Eugenio Scalfari a proposito dell'Indipendente, vedi [1]

mercoledì, ottobre 17, 2007

dai commenti ad un mio post del 15.10.2007

La Tv della Libertà ha detto...

Gentile autore,

ti comunichiamo che il tuo post, ritenuto particolarmente valido dalla nostra redazione, è segnalato nella homepage della Tv della Libertà, all'interno della sezione dedicata alla blogosfera.

Il fine è quello di segnalare ai nostri lettori i contenuti più validi rintracciati nella blogosfera, soprattutto sugli argomenti che saranno oggetto delle nostre inchieste.

Nel caso tu fossi contrario a questa iniziativa, ti preghiamo di segnalarcelo via e-mail a questo indirizzo chiedendo la rimozione del tuo post. Provvederemo immediatamente.


Distinti saluti,

La Redazione-web della Tv della Libertà.
web@latvdellaliberta.it

12:32 PM

[Troppa grazia. Come post non era nemmeno brillante]

martedì, ottobre 16, 2007

già, perchè?

“Perchè in Inghilterra hanno Nick Hornby e noi ci dobbiamo beccare Luca Sofri?”

Alessandro, 12.11.2006, pagina dei commenti
riguardanti il libro più inutile dello scorso anno
su un noto sito di vendita on-line di libri.

lunedì, ottobre 15, 2007

prima dei Radiohead qualcuno - o forse no

Il compositore Jeff Harrington afferma di essere stato lui, nel 1991, il primo a regalare i suoi album.

Ora, qua e là in giro per la rete ci sarà sicuramente la prova di tutto ciò, e io di più non so dal momento che tale Harrington mi è del tutto sconosciuto. L’unico dubbio che mi rimane è questo: nel 1991 probabilmente era già impossibile diffondere materiale al grande pubblico tramite il Internet. E ammesso che lo fosse – e lo era, ma il grande pubblico dove stava? – di sicuro non si poteva trattare di materiale “pesante” in termini di byte. Da qui deduco che si trattasse di sequenza MIDI – che Harrington mette ancora oggi a disposizione. Diciamocelo, non è proprio come hanno fatto i Radiohead.

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la farsa di ieri, come quella di ieri l'altro.

Siccome delle finte primarie tutti hanno già parlato, mi si noterà di più se non entro troppo nel merito – cosa che ho fatto in sede privata, ma che non ho voglia di rifare ora.

Epperò una cosuccia piccola piccola la devo pur dire. Questi si cagavano sotto, alla vigilia del voto, perché insomma il clima in Italia negli ultimi tempi non è dei più favorevoli alla politica, figuriamoci ad una “mobilitazione democratica dal basso” – le virgolette, va da sé, non servono per citare, semmai per mettere in dubbio. Stavano, come si dice dalle mie parti, schisci i dirigenti dei Ds e della Margherita, per non parlare dei candidati, nel prevedere quanti cittadini sarebbero andati a votare. Prima hanno detto un milione, poi forse due, sta di fatto che il gioco della sottostima anche questa volta ha prodotto il suo risultato: adesso fanno passare come un successo senza eguali i più di 3 milioni di cittadini che ieri non avevano di meglio da fare che papparsi il menù fisso del Partito Democratico spacciato per il miglior menù alla carta. Di più, è subito partito il paragone tra allora e quell’altra farsa, di due anni fa. E hanno detto che questa volta è stata ancora migliore rispetto al 2005. Pura controinformazione, anche non volendo essere polemici né sempre e comunque in controtendenza. Il fatto, semplice semplice, è che non è cambiato assolutamente nulla, né nel merito, né nel metodo, né tantomeno nel numero di votanti: gli stessi nababbi di allora sono quelli di ieri. Se nel 2005 erano state più di 4 milioni le persone votanti per le primarie dell’Unione, e ieri erano poco di più di 3 milioni per le primarie del PD, vuol dire che c’è un milione di persone “di scarto”. Che si presume siano elettori del centrosinistra che però non si sentivano rappresentati dai Ds e dalla Margherita ieri come oggi dal Pd. E mica per niente. È che c’è gente che ha probabilmente – anzi, sicuramente, perché al governo qualcuno ce li avrà pur mandati – votato per i partiti dell’Unione fuori dal Partito Democratico. Ieri come ieri l’altro. Anche – da assioma – per quanto riguarda i voti fasulli.

domenica, ottobre 14, 2007

il 12 ottobre 2007 il cd è morto (e anche i Radiohead non se la passano benissimo)

Il 12 ottobre è morto il cd, su questo mi pare che nessuno possa avere alcun dubbio. In quella data, e per la prima volta nella storia della musica, un gruppo – i Radiohead – ha pubblicato un disco solamente tramite il web, escludendo qualunque canale tradizionale e saltando molti processi nella filiera produttiva, arrivando ad avere un prodotto assemblato e commercializzato con la formula “dal produttore al consumatore”. Senza quindi l’appoggio di alcuna etichetta discografica, e tanto meno della Emi con la quale in precedenza la band capitanata da Thom Yorke aveva venduto svariati milioni di dischi. Tutto questo basterebbe per evidenziare la forte portata innovativa della cosa. Ma dobbiamo aggiungere almeno altri due elementi. Il primo, il più importante e il più rivoluzionario, quello per cui tra 50 anni ancora ricorderemmo In Rainbows e la sua data d’uscita, è il fatto che il prezzo lo fa l’acquirente. Chi vuole comprare il disco decide quanto pagarlo, punto. Volendo può decidere di “portarselo a casa” gratis, se non fosse per una tassa fissa di 0.45 sterline che rappresentano il ricavato della W.A.S.T.E., la società che vende il merchandise del gruppo e che in questo caso si è occupata della distribuzione on-line del disco. Questo è sicuramente l’elemento fondamentale dell’uscita, la vera rivoluzione. Ci si può interrogare sulle sorti della discografia dopo questo straordinario avvenimento, e in seguito alle dichiarazioni di altri illustri colleghi dei Radiohead – dai Nine Inch Nails ai Charlatans – che hanno manifestato la ferma intenzione di fare lo stesso in un futuro nemmeno troppo lontano. Possiamo star qui ore a discutere se sono le case discografiche ad aver sbagliato, pensando di dominare il mercato digitale e finendo per esserne dominate, oppure se le case discografiche alla fine la spunteranno, perché ci potrà sempre essere bisogno di loro per i giovani artisti. In seguito ad avvenimenti fondamentali nella storia della discografia, come l’uscita di questo In Rainbows necessariamente è, si pensa subito non tanto al giro di soldi vero o presunto che mancherà all’artista famoso, perché i Radiohead da parte loro si saranno fatti due conti e avranno visto che, comunque, le cose non sarebbero potute andar male. Al contrario, si pensa sempre agli artisti emergenti, e alle opportunità che il web mette loro a disposizione per promuovere la musica e per metterla in vendita bypassando tutti i canali tradizionali e potendo avere il controllo del tutto. Di questo sono molto più scettico. Il web è una giungla, molto più grande ed incontrollata rispetto a quella che c’è nella vita reale. Ed è facile sbancare quando si è un nome anche fuori dal web, quando per anni si è vissuto in modo tradizionale e – per rimanere nel campo musicale – sono stati firmati contratti con importanti etichette discografiche le quali hanno contribuito allo smisurato successo laddove il talento naturale dell’artista da solo non bastava. Trasferire tutto ciò in rete e molto più facile che crearlo lì dentro ex novo. Ecco perché forse, in un futuro quanto meno prossimo, delle etichette discografiche ci potrà essere ancora bisogno. Non di tutte ovviamente, ma solo di quelle più intelligenti che sapranno coniugare il business tradizionale con quelle che sono le nuove tecnologie, che riusciranno ad utilizzare la rete per migliorare il loro lavoro – che è quello di promuovere, vendere e soprattutto scoprire nuovi talenti – e che la vedranno più come un utile compagno di strada che come un perfido concorrente. Insomma, ci sarà ancora bisogno delle etichette discografiche coraggiose le quali, se questo sarà il trend, avranno anche il carico di lavoro alleggerito da tutti quei gruppi famosi che privilegeranno il web e la filosofia – invero risalente al punk e quindi ad una trentina di anni fa, a dimostrazione che la storia è ciclica – del do it yourself.

Il secondo fatto importante da sottolineare dopo la morte del compact disc in favore dell’mp3 è la morte dei Radiohead. I quali sembrano aver avuto la stessa sorte della musica da loro commercializzata che è passata da un supporto fisico concreto ad uno astratto, sfuggevole, incolore ed insapore. Che lo abbiano voluto fare per caratterizzare ulteriormente l’uscita di In Rainbows potrebbe essere un’astuta mossa commerciale, ma dal momento che i nuovi pezzi erano già stati suonati parecchie volte durante i precedenti live – i bootleg testimoniano – dubito che le cose stiano così. Da un gruppo che con Ok Computer ha composto uno dei dischi più importanti dell’ultimo decennio del secolo scorso ci si aspettava ben altro che questo sciatto, insipido e traballante In Rainbows. Dentro il quale qualche buona idea è sepolta ora sotto uno sfuggevole tappetino electro-trance (!) (“15 Step”) ora sotto le tonnellate di malinconia notturna (“All I Need”) che non è più stata la stessa fin dai tempi di “Karma Police”, ancora oggi uno dei punti più alti della carriera dei Radiohead. Tuttavia tutti si ricorderanno di questo nuovo album, proprio per i motivi espressi sopra. Un album che in virtù del fatto di essere un tremendo scossone all’industria musicale tutta, era già un capolavoro musicale ancora prima di uscire. Un disco che tutti compreranno per provare l’effetto che fa a decidere il prezzo di un bene – e in questo i Radiohead hanno insegnato anche una straordinaria mossa commerciale e di marketing. Il suo nome è stato marchiato a fuoco, sarà inevitabilmente una pietra miliare, il primo termine di paragone per gli anni a venire. È un po’ quella che chiamo “sindrome da Video Killed The Radio Star”: tutti si ricordano di questa canzone, ma nessuno sa che dietro la frivola apparenza dei Buggles si nascondevano musicisti con le palle quali Trevor Horn e Geoff Downes indubbiamente sono. È stato però il primo video ad essere trasmesso da Mtv, una piccola rivoluzione quindi. Che per altro impallidisce davanti a questo 12 ottobre 2007.

[prossimamente su altri schermi.]

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sabato, ottobre 13, 2007

per digerire certe stronzate

Come mi divertono queste cose. Da matti. Uno ultimamente ha così poco tempo da dedicare al blog che si stupisce comunque di come questo, ad un certo punto, viva di vita propria almeno fino a quando le energie dispensategli dal sottoscritto sono sufficienti anche durante i miei periodi di assenza. Probabilmente è citato, probabilmente è linkato a qualche sito più frequentato di questo. Probabilmente non è poi così una cazzimma come mi sembra tante volte. Sta di fatto che pur in deficit tremendo di scrittura – sì, certo, una parolina di qua e una di là: ma siamo seri! – Ordine Generale è letto costantemente da qualche decina di individui al giorno, il che mi rende un uomo felice e – di più! – come scrivevo all’inizio mi diverte “da matti”.

Qualche giorno fa, preso da un clima da Premio Nobel che pareva avesse invaso la stampa italiana degli ultimi giorni, mi auguravo che il Nobel per la letteratura non andasse a quel personaggio simpatico che è Roberto Benigni. Perché sarebbe stata la ciliegina sulla torta dell’insulto che il Nobel è diventato; ed essere proprio un italiano la ciliegina, il tocco finale per affossare definitivamente nella merda un premio che ne è già ricoperto per un buon 75% e che tra l’altro ha comunque i suoi nani e le sue ballerine – vedete Al Gore, e fatelo voi o nano o ballerina – da dover promuovere a tutti i costi – che fosse un italiano, dicevo, non m’andava giù. E per di più, sarebbe inutile nasconderlo, quell’italiano che semmai sarebbe potuto essere in lista per il Nobel alla letteratura non poteva essere Benigni, per il semplice fatto che di Letteratura – la maiuscola non mi è scappata – non ne ha mai prodotta bensì si è sempre abbeverato alla fonte altrui – Dante – per poi risputare sul pubblico tutta l’acqua che preventivamente aveva tenuto in bocca, mischiata a spruzzi di saliva e a grumi di cibo rimastogli infilato tra i denti dal pranzo – leggasi: Dante re-impastato di invettive non dantesche ma begninesche, roba dei giorni nostri, ‘na tristezza allucinante, a cavallo tra l’aulico e il burino.

Ovviamente non ho fatto pubblico questo mio pensiero allora come sto facendo ora, perché non ne avevo tempo e perché, qualora i tromboni del Nobel avessero davvero assegnato il premio a Benigni, ovviamente non avrei avuto voglia di passare le mie giornate a giustificare affermazioni convinte dinnanzi ad un pubblico in estasi e con la parte razionale definitivamente surclassata da quella fanatica del cervello – fanatica per il comico, s’intende. Mi sono limitato a definire il nostro come una “marmitta”, anche se in verità quasi subito mi sono accorto di aver, se non proprio scentrato il bersaglio, quanto meno sbagliato l’immagine a corredo. Intendevo, semmai, una di quelle marmitte smarmittate, quelle dei motorini degli adolescenti, tutt’un fracasso e una rottura di coglioni – insomma, avrete capito: e invece ho messo lì la fotina di una marmitta nuova fiammante nel suo luccicare, a suo modo un oggetto prezioso.

Poi, comunque, capita che il pubblico del comico - ovvero quelli che ci speravano, quelli che facevano il tifo, quelli con la parte razionale surclassata dalla parte fanatica - ci sia rimasto male: dopo Dario Fo, come dar loro torto?, a livello teorico il Nobel a Benigni ci poteva anche stare. E allora questi fruitori di letteratura – e la maiuscola l’ho dimenticata apposta – non trovano di meglio da fare che, anziché capire perché Doris Lessing sì e Philip Roth no e comunque Benigni no assolutamente, è troppo anche per il Nobel – questi elementi, dicevo, cosa fanno? Sfogano tutta la loro frustrazione qui, su Ordine Generale che pur se è in carenza di attenzioni da parte del suo curatore – carenza, si spera, assai temporanea – ospita tutto, le loro scorengette comprese. E volete sapere cosa hanno lasciato detto, nello spazio dei commenti, al sottoscritto? Che “marmitta sarai tu brutto stupido…”. Eh eh, stupidini! E i tre puntini di sospensione, di grazia, ce li hanno messi loro e non io, forse perché non sapevano che farsene della punteggiatura dentro la loro frase e hanno pensato bene di utilizzarli tutti alla fine, giusto per non buttarli via. O magari erano solo tre i puntini a loro disposizione e li hanno usati per staccare questa prima da una seconda, ancor più infantile, affermazione. Anzi, invito. Precisamente a marmittarmi “il c***”. Culo? Oppure i tre asterischi – ché la mamma non vuole che scriviate parolacce – sono a casaccio e intendevate il cazzo? Non mi riesce di capire il metodo, urgono spiegazioni. Ho provato con l’uno e con l’altro e pur se queste cose mi divertono da matti, non ho prodotto risultato alcuno. Questa notte non ci ho dormito.

giovedì, ottobre 11, 2007

Nobel per la Letteratura

Le preoccupazioni di ieri, fortunatamente, sono state inutili. Però, visto che di Nobel alla letteratura si tratta, fatemi mettere i puntini sulle i: qui si preferiva Roth.

mercoledì, ottobre 10, 2007

organizzarsi meglio con i sever no, eh?

Oggi è il giorno in cui i Radiohead mettono in vendita il loro nuovo disco unicamente attraverso un sito internet. E siccome per il download digitale il prezzo lo fa il compratore – e tra i prezzi possibili c’è pure la possibilità di mettere 0.00 £ - acquistare il disco è un gran casino perché il sito in questione è di una lentezza abissale.

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marmitte.

È stato assegnato il Nobel per la chimica al tedesco Gerhard Ertl perché i suoi studi hanno portato all’invenzione della marmitta catalitica. Dicono che quello per la letteratura potrebbe vincerlo la marmitta.

lunedì, ottobre 08, 2007

anyway the wind blows

Secondo un sondaggio condotto dall’operatore telefonico inglese O2 su un campione di 1051 musicofili, Bohemian Rhapsody dei Queen è il miglior videoclip di sempre.

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da "valori" non meglio precisati a valori immobiliari

“Altrimenti detto, con i soldi del finanziamento pubblico, l’Idv versava al suo leader l’ammontare mensile del prestito bancario, più una mancetta per le piccole spese, dalle cravatte per andare a Ballarò, alla tintoria quando deciderà di farci un salto invece di tenere i vestiti stazzonati”. Uno strepitoso Giancarlo Perna racconta Di Pietro sul Giornale.

venerdì, ottobre 05, 2007

Wir fahr'n fahr'n fahr'n auf der Autobahn

Quando leggo certe cose, e di sottofondo ho la mia preziosissima copia di Autobahn dei Kraftwerk pagata su Ebay un paio di euro – beh, avverto come un senso di leggerezza.

La Stampa, 05.10.2007, pag.30

Si chiede Anna Gennari, nelle lettere del 4, «come mai Bush non ha deciso di esportare la democrazia in Birmania», aggiungendo che in questo modo il comportamento degli americani sarebbe da considerarsi ipocrita. Mi sembra il solito attacco gratuito, questa volta anche un pizzico più sarcastico, poiché in verità solo il governo Bush ha imposto sanzioni alla giunta militare. E questo mentre l’Europa (Italia compresa) stava lì immobile ad attendere l’ennesimo fallimento della diplomazia Onu.

Se avete una copia sottomano, la firma è la mia.

giovedì, ottobre 04, 2007

notizia per i manettari.

Non lo si fa con lo stesso spirito che usano quegli altri, i manettari. Non si sta dando la notizia per mettere in croce l’uomo – semmai, in croce, ci finirà a suon di giusta e sacrosanta legge, visto la cazzata che ha fatto. Il fatto: funzionario della polizia municipale di Genova intascava personalmente parte dei soldi ricavati dalle multe, tramite truffa informatica. È capogruppo provinciale dell’Italia dei Valori, quelli dalla manetta facile e che ultimamente vanno a braccetto con Beppe Grillo. Loro – sempre i manettari – avrebbero fatto notare la provenienza anche di quest’ultimo.

«will people not be less inclined to pay for the product of smaller bands?»

L’Independent fa un’analisi seria e interessante di quello che sarà il futuro dell’industria musicale, dopo che i Radiohead faranno decidere al pubblico il prezzo di vendita del nuovo album e i Charlatans lo daranno gratis a chi effettuerà l’autenticazione sulla radio Xfm.

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