mercoledì, gennaio 21, 2009

E' una promessa.

Carissimi, ci sentiamo prestissimo.

domenica, gennaio 11, 2009

La crisi della carta stampata e un esempio coraggioso

Per un animale che si nutre di carta stampata – una brutta espressione che però rende bene l’idea della persona – dare un’occhiata al settore per vedere cosa riserverà il futuro dà i brividi. La crisi che colpisce il mondo dei media cartacei, si fa sentire più che da altre parti: alla mancanza di soldi, infatti, va aggiunta la concorrenza spietata, e di minore qualità, del web e della cultura digitale.
Ecco lo scenario in Italia. Il Corriere della Sera e La Repubblica perdono in diffusione e raccolta pubblicitaria; oltre ai vari tagli, riduzioni e prepensionamenti annunciati, il primo è stato ridotto di tre pagine, ha tolto i collaterali gratuiti ai suoi giornalisti e portato la mazzetta (che prima era illimitata) a un massimo di cinque quotidiani e tre periodici per giornalista. Il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, invece, ha ridotto la foliazione e rinunciato, tra lo sgomento del Cdr, al primo numero dell’anno del suo supplemento femminile D. Il Foglio di Giuliano Ferrara in un editoriale pubblicato il 6 gennaio chiede «uno sforzo» ai suoi lettori: dal prossimo lunedì aumenta il prezzo di 30 centesimi, sospende l’edizione domenicale considerata «più onerosa del previsto per un’organizzazione editoriale nata per un giornale agile» e si prepara ad affrontare altri non meglio precisati tagli. Seppur con molta (auto)ironia: non essendosi allargati molto in passato, al giornale di Ferrara spiegano che «non c’è molto grasso da tagliare (a parte il direttore)». Il Riformista, l’ultimo dei quotidiani italiani che si è dato una rinfrescata non solo grafica ma anche economica, grazie ad un piano di rilancio di svariati milioni di euro portato avanti dagli editori Angelucci, ha già perso per strada qualche pagina. Rispetto all’esordio nella sua nuova edizione, avvenuto il 20 ottobre scorso, il quotidiano che si preannunciava come la risposta italiana al Financial Times (ma sembra più un’imitazione, da sinistra, di Libero), ha ridotto la foliazione da 32 a 24 pagine. Il manifesto, quotidiano comunista e perennemente in crisi (con o senza nessi causali tra un fatto e l’altro), un paio di settimane fa ha chiesto uno sforzo notevole ai suoi lettori abituali – sperando che lo sforzo si estendesse anche ai simpatizzanti suoi o della carta stampata in generale – andando in edicola per un giorno al prezzo di 50 euro. Le sedi di corrispondenza all’estero dei grandi giornali sono chiuse in numero sempre maggiore. Il lavoro dell’inviato, di rimando, viene fatto fare dalla redazione centrale, grazie a internet o grazie a chi può permettersi ancora di mandare in giro per il mondo qualcuno dal quale poi scroccare il necessario per imbastire un pezzo. I quotidiani politici (tra i quali solo La Padania, Europa, Liberazione e Il Secolo d’Italia si trovano nelle edicole), guardano con preoccupazione ai tagli ai finanziamenti pubblici all’editoria, spesso l’unica vera fonte di sostentamento per imprese editoriali di questo tipo. Se è vero infatti che Piero Sansonetti da martedì 12 gennaio non sarà più il direttore di Liberazione, ufficialmente per via di contrasti sulla linea del giornale tra lui e la segreteria di Rifondazione Comunista, è pure vero che il segretario Paolo Ferrero ha usato come motivazione anche quella di una presunta emorragia di copie. E dopo la debacle elettorale di Rifondazione Comunista con la Sinistra Arcobaleno, il partito può contare su rimborsi elettorali notevolmente ridotti rispetto al passato. E meno rimborsi elettorali si traducono in meno soldi in cassa, cioè (anche) in meno disponibilità economica per fronteggiare i costi del quotidiano che perderebbe due milioni di euro all'anno. L’Unità, da qualche mese guidata dall’ex inviato di Repubblica Concita De Gregorio e acquistata dal candidato alla regione Sardegna del Pd Renato Soru, ha dovuto ridursi – nel vero senso della parola – all’aspetto di un quotidiano free-press per poter colorarsi tutte le pagine. Un discorso a parte, poi, meriterebbe la scarsa qualità della stampa periodica italiana, segno sia della crisi che di un mercato editoriale troppo preso a sfornare un prodotto tranquillizzante per i lettore e per l’editore, al fine di non lasciare troppo spazio alla concorrenza. Basti prendere come esempio i due più importanti newsmagazine: Panorama (Mondadori) e l’Espresso (Espresso-Repubblica). Il primo sorregge il secondo, e viceversa; nessun serio tentativo di innovazione, di ammodernamento, di sparigliare le vetuste regole che li governano da decenni, per paura di regalare copie all’avversario – la differente linea politica che li divide, poco importa. Questo esempio può essere esteso ad altri – sovraffollati – settori. Staremo a vedere a febbraio il lancio dell’edizione italiana di Wired, ad opera di Riccardo Luna per Condé Nast, e nel frattempo continueremo a leggere la stampa straniera tramite Internazionale nella speranza che, prima o poi, qualcuno abbia il coraggio di mettere insieme un’impresa coraggiosa di grande giornalismo. Perché lasciarsi andare davanti all’avanzata del digitale è, nel cuore di molti lettori, una resa troppo amara da mandare giù.
Guardando all’estero, basta l’esempio degli Stati Uniti per capire che le cose vanno – se possibile – persino peggio. Qualche mese fa ha chiuso per mancanza di soldi il New York Sun, un piccolo giornale tutt’altro che ininfluente: l’ex governatore dello stato di New York George Pataki l’ha definito come «il migliore giornale di New York», con buona pace del New York Times. Lo stesso Times che, dopo aver ipotecato il suo nuovo lussuoso grattacielo progettato da Renzo Piano che ospita la redazione, qualche giorno fa ha rotto uno dei suoi principî più sacri andando in stampa con una fascia pubblicitaria ai piedi della prima pagina (accorgimento già adottato anche dagli altri colossi Wall Street Journal, Usa Today e Los Angeles Times, con il solo Washington Post a resistere, per il momento). Il Tribune Group, proprietario delle corazzate Los Angeles Times e Chigaco Tribune, è collassato. Tra tutto questo, il senatore democratico del Connecticut Frank Nicastro, sta conducendo una battaglia - al grido di «i giornali sono una parte vitale degli Stati Uniti» - affinché si trovino i soldi per salvare il Bristol Press, quotidiano della sua città, a dimostrazione della forte considerazione di cui gode la stampa locale. In generale, laggiù la tendenza è quella di sperare che gli aiuti di stato piovano su altri settori (ad esempio, quello dell’auto che boccheggia e chiede aiuto da tempo), in modo tale da avanzare la richiesta di un bailout anche per quello della stampa. Rimane certo da convincere l’opinione pubblica dell’utilità di questa battaglia, la stesse persone che da tempo sembrano aver voltato le spalle ai giornali.
Il motivo del pessimismo che circonda il mondo della carta stampata è da ricercarsi, ovviamente, nella crisi economica. Ma non solo. Come già detto il digitale gioca una parte importante nella partita. Permette, a costi nettamente inferiori rispetto alla carta, un ciclo di news praticamente ininterrotto, fruibile e soprattutto alimentabile – mediante fenomeni ‘non professionali’ come il citizen-journalism – da qualunque parte del mondo in un qualunque momento della giornata. All’apparenza non ci sarebbe storia: niente carta (da sempre, una delle voci che pesa di più nei bilanci delle imprese editoriali), solo contenuto. I giovani ne vanno pazzi, e infatti non leggono più giornali cartacei. Sopravvive la passione per il quotidiano tradizionale in chi durante la sua vita di lettore ha vissuto lo switch tra analogico e digitale ed è quindi già abituato al ‘vecchio’ formato; ma anche in questi casi è registrata disaffezione nei confronti della parola scritta, segno di un indubbio abbassamento della qualità. Anche la spesa gioca un ruolo decisivo: molti contenuti digitali, infatti, sono gratuiti. Gli stessi siti dei quotidiani mandano sul web una fetta enorme di articoli scritti ad hoc, lasciando al lettore la facoltà di pagare per leggere quelli già pubblicati su carta, mediante la sottoscrizione di speciali tipi di abbonamento.
I siti dei grandi quotidiani producono però, in generale, un’informazione di tipo certificato, grazie alla lunga tradizione della carta stampata insita anche in chi si occupa della parte web. Il vero pericolo, nel digitale, è quello proveniente dall’informazione non professionale – il già citato «citizen-journalism» – troppo spesso elevata a livelli di attendibilità che nemmeno quella tradizionale. Non è ovviamente possibile e nemmeno giusto fare di tutta l’erba un fascio, ed esistono molti siti indipendenti che forniscono notizie vere e certe con un tempismo e una flessibilità che il medium di carta, per sua natura, non può avere. Esistono però anche siti che pubblicano bufale, riprese puntualmente dalla stampa cartacea il giorno appresso. E qui si presenta la preoccupazione maggiore: la bufala digitale è ripresa come certa dalla stampa tradizionale, contribuendo a un abbassamento della qualità e a un impoverimento dell’informazione. In altre parole, il mezzo cartaceo, per non soccombere dinanzi al fratello digitale sempre aggiornato, normalizza la sua informazione su quella di quest’ultimo, abbassandola.
A sentire alcuni, sembra che l’unica vera fortuna della carta rispetto al digitale sia la raccolta pubblicitaria (colpita però dalla crisi economica). A differenza di quanto si crede, ciò non deriva dal fatto che chi compra uno spazio pubblicitario preferisca necessariamente farlo su carta; semmai è perché non si è ancora riusciti a sfruttare al meglio la raccolta pubblicitaria su internet. Viene quindi da pensare a cosa accadrà il giorno in cui, economicamente parlando, la raccolta pubblicitaria sul web renderà almeno quanto quella su carta. A voler fare un’analogia con un altro settore che risente parecchio della concorrenza del digitale anche per via della pirateria – l’industria musicale – lì siamo già avanti: la Atlantic, una divisione della Time Warner, ha dichiarato che nel 2008 i dischi venduti on-line hanno rappresentato il 51% del fatturato complessivo della vendita di musica.
Davanti a questo quadro pessimista, e all’abbassamento della qualità del mezzo cartaceo, c’è però chi non demorde e continua a proporre (con successo) una formula editoriale il più tradizionale possibile. E senza sentirsi una vittima del mondo digitale. Sto parlando del mensile Monocle. Fondato dal quarantenne Tyler Brûlé, già editorialista del New York Times, dell’International Herald Tribune e del Financial Times (imperdibili le sue column su trend e aeroporti sul FT-Weekend) nonché fondatore di Wallpaper*, Monocle si pone come un «global briefing» su avvenimenti, business, cultura e design. E fa tutto ciò con la consapevolezza della crisi nel settore, ma offrendo a un sempre più vasto pubblico un giornalismo lussuoso e di alta qualità. Senza badare a spese: quartiere generale a Londra e sedi distaccate a Zurigo, New York e Tokio. Più un gruppo di uffici di corrispondenza in tutto il mondo; non esattamente la radiografia di un’impresa editoriale operante in un momento di crisi. Segno che la qualità paga, così come le intuizioni capaci di assecondare la richiesta di un pubblico adoratore della carta stampata (e sulle intuizioni di Brûlé non si devono aver dubbi: il suo Wallpaper* è uno dei magazine più influenti e interessanti lanciati negli anni ‘90). Monocle ha sempre dedicato ampio spazio al medium che lo fa vivere (si veda il volume 01 – issue 08, november 2007), e nel numero attualmente in edicola (volume 02 – issue 19, december 08/january 09) ritorna sull’argomento con due pezzi nella sezione cultura. Il primo, «The Watch Word» di Andreas Tzortis [pp. 93-96], ci racconta la terribile caduta della qualità della stampa tradizionale in seguito non solo alla diffusione di canali informativi alternativi e non professionali grazie al digitale, ma anche per via della velocità nella produzione e dei troppi compiti che il giornalista deve fronteggiare per via della co-esistenza e della interazione tra ‘nuovo’ e ‘vecchio’. Secondo l’articolo, troppi sono i compiti che gravano sulle spalle di un giornalista in tempi di convergenza analogico-digitale. «Oggi i giornalisti devono cercare una videocamera, muoversi per fare interviste e allo stesso tempo aggiornare le news sul web ed editare i loro pezzi, nonché mettersi al lavoro per l’articolo che uscirà sul giornale cartaceo del giorno dopo», si legge nel pezzo, e queste modalità serrate di lavoro non sono ottimali per il raggiungimento del risultato finale. Il motivo – dice Charles Fieldman, veterano dei reporter della CNN, intervistato nell’articolo – risiede nel «concetto di mettere insieme tutti questi lavori e allo stesso tempo pensare di fare un giornalismo ragionato», concetto ritenuto dallo stesso Fieldman «assurdo». Il secondo articolo, «Agents of Change» a firma dello stesso Tyler Brûlé [pp. 109-110], fa addirittura un passo avanti nell’analisi delle responsabilità, arrivando ad affermare che «dare la colpa solo al web per le scarse performance di quotidiani e magazine, significa assolvere quelle parti che in questa crisi hanno le colpe maggiori: gli editori e i loro collaboratori nella catena distributiva». Un’affermazione pesante, con la quale però sarà il caso di iniziare a prendere confidenza perché potrebbe rappresentare una parte consistente della verità. Brûlé lamenta che i proprietari dei giornali «hanno avuto troppa fretta nell’investire in siti internet che non avevano alle spalle piani ben studiati» e che, allo stesso modo, hanno agito troppo in fretta nel tagliare i costi di produzione del prodotto cartaceo, per di più «aspettandosi che il lettore pagasse di più per un prodotto che era stato impoverito» dai continui piani editoriali di ridimensionamento. La soluzione sarebbe quella di arricchire il prodotto tradizionale al fine di renderlo concorrenziale alla sua versione web, e per fare ciò l’editore deve mettere a capo dei suoi prodotti «gente che ama la carta stampata e sa quello che deve fare». Insomma, l’amore per l’odore, per la sensazione tattile e per il ruolo che da sempre ricopre la stampa, serviranno a salvarla. Brûlé cita ad esempio proprio la sua ultima creatura, nata per offrire al lettore qualità, scritti pregiati delle migliori firme mondiali, illustrazioni di gran fattura, storie uniche raccolte alla vecchia maniera, in controtendenza rispetto ai pastoni messi insieme con i lanci d’agenzia che riempiono i prodotti derivati dalla cultura del cosiddetto «digital freebie» e della free-press (individuata da Monocle come l’altro grande nemico della stampa tradizionale). Il giornale come opera d’arte, quindi. I gruppi editoriali però devono stare attenti a non sottovalutare, come detto, anche gli aspetti della catena distributiva. Insomma, secondo Brûlé bisogna creare dei punti vendita che invoglino l’acquirente a comprare il giornale offrendogli allo stesso tempo dell’altro. Permettendogli, ad esempio, di poter stare seduto a leggere, o scambiare due chiacchiere con qualcuno. Dandogli la possibilità di prendersi un caffè, insieme alla copia del suo magazine preferito. Nelle parole di Brûlé, questi devono essere «posti che vendano quotidiani, settimanali, mensili e anche caffè macchiato», dove la gente sia disposta «a passare del tempo e a spendere i suoi dollari, i suoi euro e i suoi yen». E dove la spesa sia accompagnata, se possibile, dalla consapevolezza che non si stanno dando soldi per qualcosa che co-esiste gratuitamente sul web, ma per un pezzo ‘unico’. Un’idea bizzarra? Forse. Monocle ha vinto in qualche modo la sfida: i suoi fedeli abbonati, disposti a spendere 75 sterline l’anno per la rivista (in Italia è venduta a 10 euro la copia), sono oltre 150 mila ed è appena stato inaugurato a Londra, in George Street, il primo Monocle Store, che vende anche tutta una serie di prodotti collaterali (vestiario, accessori e profumi) oltre alle migliori testate internazionali. Proprio nel modo descritto da Tyler Brûlé. C’è qualcuno là fuori disposto a prendere esempio?

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mercoledì, gennaio 07, 2009

Letizia Moratti, chiedono se scendi un attimo a liberargli la macchina.

Vogliamo dirla tutta? Diciamola. In Italia, quando non si sa più a quale santo votarsi per stare in casa a non fare un cazzo, si spera nel maltempo. Piove – perché non può esserci sempre il sole, e comunque col sereno d’inverno ghiacciano le strade – e la tangenziale si blocca? Non vado al lavoro, anche perché se ci andassi entrerei comunque tardi, per cui tanto vale stare all’asciutto: ci siamo già organizzati tra noi colleghi per stare tutti a casa. Nevica? Come minimo si pretende che le scuole rimangano chiuse perché, se sto a casa dal lavoro quando piove, ti pare che porto mio figlio a scuola con tutta la neve che è scesa? A Milano nevica che è una meraviglia da praticamente 36 ore, e neppure le peggiori previsioni del tempo avevano previsto un casino del genere. È normale che con una neve così straordinaria – nel senso che è proprio “fuori dall’ordinario”, a Milano – le strade siano uno schifo, e gli spazzaneve troppo pochi e che gli spargi sale non ce la facciano a spargere ovunque. E l’italiano medio cosa dice? “le strade principali intasate di neve, i marciapiedi neanche parlarne. I tram bloccati sugli scambi, e le strade, parlo di Porta romana, Via Larga e altre vie centrali, tutte con una lastra di ghiaccio. Ma i mezzi sono passati oppure no?” [Theitalianmom, da Corriere.it]. Oppure tira fuori dal cilindro il solito sempreverde, quello che non lo citi più nemmeno nelle battute perché pensi non faccia più ridere, ma che qualcuno si ostina ad usare per scaricare tutti i problemi di cui crede l’umanità sia afflitta e che spesso sono invece solo suoi: “non ricordo di aver mai visto la nostra Milano in questo stato: un sentito grazie alla sig.ra Sindaco per l'efficienza” [senza nome, sempre da Corriere.it]. Nevica-governo-e-sindaco-ladri. Perché il lavoro no, il figlio a scuola non se ne parla ché mi sporco gli stivali nuovi, ma a bere il caffè con gli amici e in centro a fare shopping per i saldi come cazzo ci vado, se non ho le catene e quelli non si sono degnati nemmeno di spazzare un po’ intorno alla mia macchina?

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Una di sicuro la azzecca.

Marco Travaglio, sull'Unità, ha firmato una paginata (una “paginetta”, sarebbe meglio) per gongolare sul fatto che “l'unico aspetto positivo dell'imbarazzante documentario su vita e opere di Bettino Craxi [...] è che l'han visto in pochi” [l'Unità, 06.01.2008, pag. 17]. Seguono i dati di ascolto, rintracciabili in rete e pubblicabili mediante copia-incolla. Poi segue una trama alquanto bizzarra: anziché parlare del documentario facendo attenzione a non svelare l'assassino (come ogni trama che si rispetti), ci dice quel che non c'è nel filmato: l'elenco lo potete immaginare, copiato e incollato qua e là dalla rete, da qualche libro di Travaglio stesso o di uno dei suoi amici. Nulla che il lettore medio de l'Unità già non conosca e non reciti a memoria quale suo personalissimo rosario – la signora direttora, per dire, poteva destinare il francobollo che sono diventate le pagine del suo giornale a qualcosa di inedito, e relegare questo popò di critica cinematografica alla rubrica travagliesca di pagina 3; oppure fargli sviluppare meglio lo spunto su Enrico Berlinguer, il quale non “imbracciava la 'questione morale' per distrarre il popolo bue dal trionfo di Craxi” ma semmai per distrarre i suoi dalla mani in attesa del “contributo”, una tesa verso Mosca e l'altra nella stessa identica direzione verso cui la tendevano tutti gli altri partiti. Se si riesce ad arrivare in fondo all'articolo – e ci si dovrebbe riuscire, se non altro perché i giornali di quelle dimensioni, insegnano i concorrenti distribuiti in metropolitana, sono scritti per essere letti in poco tempo – si viene a conoscenza anche di uno spot pubblicitario andato in onda durante il documentario, un cicalino di Canale 5 in cui “Jerry Scotti lancia il suo nuovo quiz”. Precisa qui Travaglio che si tratta “dello stesso Gerry che Craxi portò in parlamento”. Proprio lo stesso, magari no. Ad attaccarsi al capello, come è solito fare lui, oltre a scivolare per via del sebo si rischia anche di accorgersi che c'è di mezzo una lettera. Probabilmente il noto presentatore televisivo non è mai comparso su alcun dispaccio delle procure e il nostro, che Mediaset non la guarda se non quando ci sono i documentari su Craxi, nel dubbio l'ha nominato in doppia forma. Essendo questa esclusivamente farina del suo sacco, “magari una la azzecco” - avrà pensato.

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martedì, gennaio 06, 2009

Dice che c'è crisi.

Pare che da domani da lunedì 12 gennaio Il Foglio costerà di più (1,30€). E non uscirà più la domenica.

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domenica, gennaio 04, 2009

il Times lo mette in una riga, Repubblica ci fa titolone e foto.

L’immagine dell’Italia all’estero, si sa, è macchiata dalla mafia. Uno stereotipo duro a morire, con il quale ormai siamo abituati a convivere e che cerchiamo – evidentemente invano – di abbattere ogni qual volta varchiamo il confine. Quando però lo stereotipo è alimentato proprio a casa nostra, cioè a casa di chi lo vorrebbe combattere, ci prende un po’ di sconforto e ci si domanda quali fini ci siano dietro questa voglia di apparire a tutti i costi come veniamo dipinti dagli altri. Succede che il Times di oggi, nella pagina dei commenti, ospiti un contributo di Daisy Goodwin circa la rimozione, da parte di Facebook, dei profili di chi pubblica foto mentre allatta; una pratica vietata dal sito poiché andrebbe contro la politica anti-nudo esplicitamente dichiarata nel contratto stipulato al momento dell’iscrizione. Un fatto ombroso, che ha già scatenato qualche polemica anche perché non sempre si riesce a ritenere cosa violi le leggi del sito di social networking più famoso al mondo: una donna che allatta dovrebbe passare, a patto che non si vedano pienamente il capezzolo e l’aureola. Ma non è questo il punto, almeno non adesso. La Goodwin, tra un paragone e l’altro, fa notare che per Facebook la foto di un seno che allatta è moralmente sbagliata, al contrario del creare un gruppo inneggiante a Toto Riina. Per affermare ciò, all’interno dell’articolo sono dedicate 446 battute su 6.449; o, se preferite 76 parole su 1.119; o ancora, per i più pignoli, 1 paragrafo su 15 (se il conteggio parole di Microsoft Office Word per Mac non mi inganna). Insomma, l’intento della column non era quello di dimostrare – una volta tanto! – che in Italia siamo mafiosi perché creiamo gruppi su Toto Riina, bensì un doppiopesismo di Facebook nel giudicare cosa sia poco morale e quindi vada censurato (una donna che allatta) e cosa invece possa tranquillamente passare indenne dalle maglie degli amministratori (un gruppo di coglioni pro Totò Riina). Il sito di Repubblica, quotidiano italiano cui dovrebbero dar fastidio i pregiudizi che all’estero hanno nei nostri confronti, tanto più se riguardanti l’ormai celebre «mafiosità» dell’Italia, ci fa invece una delle tante aperture in home page in questa fredda domenica invernale: seconda notizia per importanza con tanto di foto (questo alle 19.00, in seguito si spera scenderà in graduatoria), subito dopo la guerra in corso tra Israele e Hamas. Titolo: «Facebook non chiude i gruppi pro Totò Riina». Sottotitolo: «Pochi giorni dopo la rimozione della foto delle donne che allattano, il social network rifiuta di bloccare gli utenti che inneggiano alla mafia: “sarebbe censura”». Riferimento all’articolo del Times: «“E invece perché nessuna censura nei confronti di chi inneggia su Facebook al capomafia Totò Riina?”, ribatte un autorevole commentatore del quotidiano inglese Times». E così Repubblica amplifica una questione tutta italiana solo perché l'ha letta in un paio di righe di articolo sulla stampa estera. Articolo che, per il resto, parlava di tutt'altro.

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sabato, gennaio 03, 2009

scaricata.

Mi tocca tornare su una questione che su queste pagine va avanti ormai da un po’, sparsa qua e là tra gli interventi del blog. Mi tocca tornarci perché, durante questi quattro-cinque giorni di mia assenza, ho ricevuto un paio di commenti che meritano risposta e la meritano in forma pubblica giacché potrebbe interessare a molti. Due, in particolare, i commenti, che uso qui a mo’ di pretesto per sviluppare un discorso leggermente più ampio e – piaccia a Dio o a chi volete voi – spero definitivo, ché mi sono un po’ rotto le palle di ripetere sempre le stesse cose (motivo per cui il corpo di questo post è piccolissimo, interessando a pochi, e il testo si dissolverà nelle prossime ore diventando bianco).
Il primo commento mi è stato lasciato alle 6:46 pm del 30 dicembre da Mariachiara, la quale mi chiede perché quando c’è di mezzo l’oggetto della questione – e mi perdoni l’oggetto proprio per averlo definito tale, ma si fa per capirsi senza ripetere nomi e cognomi che interessano a quasi nessuno – e qualcuno la loda (“la” inteso come “lei” che poi sarebbe “l’oggetto”), io assumerei una posizione spocchiosa e/o addirittura di sminuimento nei suoi (dell’oggetto) confronti. Una (mezza) verità e una bugia, cara Mariachiara. La mezza verità sta nel fatto che una posizione spocchiosa la assumo sì, ma più nei confronti di chi scrive che dell’oggetto della questione; questo perché a volte – spessissimo, per la verità – ho come la sensazione che questo dibattito, da me creato e da me garantito a chiunque abbia qualcosa da dire e lo voglia fare nei limiti del decoro e della buona educazione, si svolga sotto forma di piagnisteo fine a se stesso e quindi inconcludente. Da qui la spocchia di chi vuole portare avanti un dibattito costruttivo, fatto non solo di sterili indignazioni e di una serie indefinita di “grandissima” “immensa” “divina” (oltre che di richieste di spiegazioni al sottoscritto il quale ha già abbondantemente dichiarato di non essere in grado di darle le spiegazioni), ma anche di interventi interessanti e intelligenti. La bugia, invece, è quella che sottintende nel tuo commento, Mariachiara, una certa presa di distanza mia dall’oggetto della questione, come se non riconosca o non abbia mai riconosciuto (arrivi a sostenere che io apro questi spazi solo perché esistono là fuori tanti ammiratori pronti a riempirli di commenti e quindi di visite al blog, come se ne guadagnassi qualcosa) il suo valore; di più, come se non fossi più un suo ammiratore ma continuassi a sfruttarne quei 10-15 ingressi giornalieri che secondo molti di voi costituirebbero un (in)successo mediatico. Vorrei qui ricordare una cosa molto semplice: se ho aperto degli spazi – come li chiamate voi, sarebbe meglio “se ho scritto dei post” ma vabbé – è perché tengo alla cosa, altrimenti non l’avrei fatto risparmiandomi tempo allora come ora che devo ri-spiegare per la millesima volta lo stesso concetto. In quegli “spazi” – sempre come voi li chiamate – ho scritto tra le altre cose quanto segue: che lei è “grandiosa”, che il suo libro (che non mi pento di aver poi definito “bruttino” suscitando malumori) lo “compreremo e adoreremo”, che stando alle news che giravano allora il suo possibile allontanamento da quel famoso quotidiano di quattro pagine sarebbe stato (come poi puntualmente è avvenuto) una “cazzata”, che “noi qui ti adoriamo” e non sto a continuare perché mi sembra più che sufficiente come dimostrazione della mia ammirazione per questa persona. Ho poi criticato tante altre cose, tra le quali il celebre libro di quell’altrettanto celebre politologo bolognese all’occasione anche ottimo fustigatore di costumi nazionali, per quelle pagine che voi fedeli lettori avete invece trovato irresistibili e che io devo quindi aver letto con una chiave di lettura differente. Ma una critica non può per caso arrivare anche dai più ferventi ammiratori? Oppure dal momento che critico passo automaticamente dall’altra parte, secondo la vostra visione del mondo in bianco e nero – dove i bianchi subiscono sempre le decisioni dei neri (o viceversa) e, a parte lamentarsi, non possono fare altro?
Il secondo commento, postato da Giovanna alle 0:34 del 3 gennaio 2009, mi permette invece di trattare una questione marginale all’oggetto specifico solo in apparenza. Scrivi, cara Giovanna, che per andare d’accordo come me “non bisogna porsi molti perché”, in quanto mi farebbero velo “la moda, la simpatia o il quieto vivere”. Per andare d’accordo con me, prima cosa, bisognerebbe conoscermi o leggermi in toto per apprendere ogni mia sfaccettatura reale (se mi si conosce) o virtuale (se ci si limita a quanto scrivo, ovvero a quanto voglio in qualche modo lasciar trapelare di me a voi). Seconda cosa, per andare d’accordo con me bisogna proprio porsi tantissimi perché, altrimenti mi rompo le palle e chiudo la conversazione. Ma il porsi dei perché da queste parti è stato fatto poche volte (e quasi tutte fuori dal contesto che qui stiamo trattando) e ha lasciato invece spazio a parecchi piagnistei o a battaglie tragicomiche (se ci si vuole fare ascoltare da qualcuno, lo si interpella tramite canali maggiormente diretti di questo e tanto più che il sottoscritto ha spesso volte ribadito – da ultimo qualche riga sopra – di non avere legami o contatti con chicchessia o di non volerli condividere con nessuno). Per quanto riguarda la moda, buchi il bersaglio cara Giovanna, sia nel generico che nello specifico, a meno che mi sia perso la puntata in cui è diventato di moda andare contro il personaggio di cui stiamo parlando (e anche in questo caso, ti assicuro che non la seguirei). La simpatia, quella, è invece insita in ciascuno di noi e sfido chiunque a dire il contrario. Il quieto vivere lo applico, mi piace; d’altronde, a volte, non saprei come fare altrimenti.
Ci sarebbe poi “fuori concorso” il commento lasciatomi da Gianni alle 4:15 del 1 gennaio 2009. Gianni è il tipico commentatore come ce ne sono stati moltissimi in questo dibattito: non dice nulla di costruttivo e si limita all’indignazione fine a se stessa (le solite cose trite e ri-trite del tipo “se questa penna, dicevo, ci viene tolta senza spiegarci mai niente e questo dobbiamo ritenerlo normale solo perchè [sic!] l'interessata non va ad ammorbarci come tante sfigate alla televisione fra i sussieghi e le ipocrisie dei vari conduttori, io mi ribello e dico che un bel pò [sic!] di soviet ce lo ritroviamo e ce lo facciamo piacere”), roba che un amministratore serio di blog cancellerebbe immediatamente ma che io, per il “quieto vivere” di cui sopra, lascio correre. Gianni, dopo la sfilza di indignazioni e denunce, arriva ad additarmi quasi come censuratore del dibattito: “e poi, oltretutto, per poterne scrivere su questo post dobbiamo anche andare a trovarlo con una certa difficoltà, mi viene quasi da iniziare l'anno con un bel andate tutti a ......”. Dunque, caro Gianni, di puntini di sospensione solitamente se ne usano tre, ma sorvolo più che volentieri e tanto più che a contare gli strafalcioni che faccio io si farebbe notte, ma di un giorno da qui a un paio di mesi. Ordine Generale non è un forum, è un blog (di chi scrive, se vi fosse mai venuto un dubbio): ogni volta che qualcosa viene pubblicato, la roba più vecchia “sparisce” dalla home-page e finisce in archivio. Le virgolette usate in “sparisce” indicano che non si tratta di vera e propria scomparsa, ma solo di un’apparenza. In calce ad ogni post di ogni blog c’è quello che viene chiamato “permalink”: serve a fornire un collegamento permanente (da qui il nome) al post in questione, collegamento che chiunque può salvare dove meglio crede (tipo nei segnalibri del programmino che si usa per navigare in internet). È una funzione molto comoda che ti consiglio di usare (in OG è contraddistinta dall’orario di pubblicazione del post), caro Gianni, anche come alternativa all’altrettanto valida funzione di ricerca (la vedi quella barra blu in alto?) che di sicuro già conoscerai essendoti definito “non un pivello”. Ora, datemi pure di spocchioso, me lo sono meritato.