tanti saluti.
Ci si risente tra due settimane esatte. Un bacio.
L'autunno è tempo per le Terze Camere del Parlamento, quelle televisive, di aprire. Ritornano così i Vespa, i Santoro, i Floris, i Mentana, i Ferrara e i Lerner. Ma c'è un personaggio, epurato di diritto ma poco eccellente, che da anni si è rifugiato nelle televisioni piccole o nei modesti network nazionali. E non ha brutti nei sul viso, né l'aria da primo della classe; non indossa papillon, i suoi capelli non sono ricci né tantomeno tinti di biondo e la sua 'erre' è affilata ma non arrotata. Signori e signore, parliamo di Gianfranco Funari, “l'edicolante più famoso d'Italia” come si definì una volta, il croupier del casinò, il cabarettista d'antan, l'uomo che da una vita offre la sua voce alla ggente che – per mancanza di fama o per sfortuna – non riesce a farsi sentire. Lui, indomabile ed implacabile, anarchico, ex socialista, ex berlusconiano (“pentito del centrodestra e deluso del centrosinistra” per dirla come il proclama che campeggia, minaccioso, sul suo sito), con il suo bastone da passeggio nella destra e la moglie Morena Zapparoli alla sinistra a tranquillizzarlo dopo l'ennesima sbraitata, continua imperterrito ad andare in televisione, con l'aggravante della Rothmans sempre tra le dita. E proprio le sigarette rappresentano la sua croce e la sua delizia; fuma come un dannato, in barba ad ogni illiberale legge anti fumo, anche negli studi televisivi, eppure non perde occasione per ricordare che è sbagliato, non si fa – “una cojonata” direbbe lui – e mirabile fu quella volta che infilò tra le natiche di una trentina di volontari una bionda (spenta), a sottolineare evidentemente come solo chi è dotato di certa faccia possa cedere al vizio, e non pensiate che fossero solo maschi boari e beoti; al contrario, tra i volontari, si distinguevano anche graziose signorine.
Il suo modo di fare, unico, gli è costato prima la Rai e poi Mediaset e da qualche anno sembra aver trovato il suo habitat naturale sul circuito di Odeon. Dove, il 13 settembre, è partito il suo nuovo programma Virus (il mercoledì e il venerdì dalle 21 e 10 alle 22 e 45), con le linee telefoniche sempre aperte e roventi, con il suo incedere incredibilmente coinvolgente, con la sua passione per la carta stampata (diresse l'Indipendente a metà degli anni '90) e la sua tecnica che ancor meglio si addice al piccolo schermo, tanto da costargli l'espressione “raffinatissimo e sofisticatissimo filologo della televisione” coniata da Vittorio Sgarbi, un altro che non le manda a dire, quasi un funariano se non fosse che, conoscendoli, evitiamo volentieri l'obiezione di entrambi. Con i suoi programmi – dai primi game show ante litteram alle ultime atipiche tribune politiche – Gianfranco Funari ha sicuramente cambiato il linguaggio della politica televisiva, trasformando quello che ai più era incomprensibile in una parlata fin troppo colorita ma accessibile a chiunque, dal manager al lattaio. Non ha paura di nessuno Funari, nemmeno di andare davanti a Gianfranco Fini mentre questo è vicepresidente del Consiglio a chiedergli, gentilmente, “ma quanno te 'ncazzi?”, dopo aver liberamente interpretato un antico detto italiano, trasformato per l'occasione in “non si muove foglia che Silvietto non voglia” - intendete da voi il riferimento. Scrisse anche un romanzo (“Famiglia svendesi”, 1978 Rizzoli) e partecipò a numerosi spettacoli teatrali e produzioni cinematografiche, dimostrando al suo pubblico il limite fisico che tuttora ha quando si sente incastonato solo nella politica, una cosa che per sua stessa ammissione ha amato moltissimo, ma non l'unica importante nella sua vita.
Ti guardano i suoi occhi, menano – e non con il fioretto – le sue parole e il suo faccione, notevolmente invecchiato e scampato alla malattia quasi per caso – e lui non manca mai di dirlo: “fateve 'a doppler, per-l'ammor-de-ddio” - è lì, forte, fiero e romanesco, come sempre. I giornali non parlano quasi mai di lui, né delle sue trasmissioni. Sono troppo occupati a parlare di share e delle pseudo-polemiche innescate dai grandi talk show. Eppure la sciura Maria, quella che ha i buchi nell'asfalto davanti a casa, quella che s'indigna per la mafia, quella che calciopoli è stato uno schifo e quella che legge Beha e Travaglio salvo poi votare liberale chiama lui in trasmissione. E qualche soddisfazione di tanto in tanto se la toglie, vedi l'essere invitato nelle trasmissioni le quali, con la sua presenza, triplicano gli ascolti – si tolse la dentiera alle Iene, andò da Chiambretti ad invitare tutti i fumatori ad urlare “Io sono uno stronzo”, si commosse da Bonolis, fece l'ospite di lusso dalla Carrà, e la curva degli ascolti che cresceva, cresceva e cresceva. Nessuno si dirà mai completamente d'accordo con lui, perché pensa tutto e il contrario di tutto sulle cose più disparate e i linguaggio è il più diretto possibile, roba che su altri canali si sarebbe già mosso l'osservatorio sui minori. Ma, nel panorama della televisione d'approfondimento quasi sempre troppo omologata o da una parte o dall'altra, a noi piace anche per questo.
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Ripubblico qui sotto, in corpo piccolo, a complemento di quest’altra cosa.
Secondo me il tuo parere a riguardo è distorto da una cosa. Dici di apprezzare l'Opinione, di volerlo comprare anche ad un prezzo doppio e tieni in considerazione il fatto che, senza il finanziamento pubblico, potrebbe chiudere ma allo stesso tempo sei quasi sicuro che l'imprenditore dietro la casa editrice ci saprebbe fare e la cessazione delle pubblicazioni sarebbe scongiurata. Questo perchè, comunque, vende 10.000 copie. Ed è proprio qui che ti sbagli: vendesse 10 mila copie, sarebbe molto probabilmente come dici te. Il fatto è che ne vende meno, molto meno: nelle parole del suo direttore, durante la famigerata inchiesta di Report circa il finanziamento pubblico all'editoria, l'Opinione vende «all'incirca 3-4 mila copie» (dovresti trovare ancora il video su YouTube per la conferma). Dubito che in un paio di anni il giornale sia riuscito a più che raddoppiare le sue vendite, anzi: notoriamente, i dati di vendita dati dai direttori - e soprattutto in un contesto come quello dell'inchiesta, dove se dichiaravi di vendere pochissimo eri automaticamente sotto accusa - sono da prendere un po' con le pinze, in quanto gonfiatucci (anche Ferrara dice di vendere 12 mila copie del Foglio, ma dubito). Inoltre, per venduto spesso si intende anche il regalato (almeno, per la ripartizione del finanziamento pubblico il regalato conta come il venduto): ti assicuro che in una piccola radio locale hanno ricevuto - gratis - per tre mesi interi ogni giorno due (2!) copie dell'Opinione, ovviamente senza né averne fatta richiesta né conoscere la testata - me li leggevo io, intanto, visto che nelle edicole è dura trovarlo.
Detto questo, nessuno vorrebbe mai togliere una voce importante come quella di Diaconale - come dici giustamente tu, una delle poche liberali - dal panorama editoriale italiano, ma senza il finanziamento pubblico questo accadrebbe quasi certamente.
Ancora convinto che sia così tanto sbagliato? A questo punto preferisco finanziare anche il manifesto se serve ad avere tante altre testate.
Sacrosanto il discorso sulle testate fantasma, ma è un'altra cosa: lì si parla di fogli che non vengono distribuiti, che sono ad uso interno (ricordo una specie di quotidiano di una sigla sindacale) o che vengono addirittura distribuiti come volantini giusto per fare numero. Mi pare, tra l'altro, di aver letto che una delle prime proposte di Bonaiuti - delega all'editoria - sia stata quella di fissare insindacabili criteri quali la stampa e la distribuzione per poter accedere ai finanziamenti pubblici.
Saluti.
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L’iPhone è senza dubbio la cosa più figa capitata su questa terra – a livello di oggettistica, s’intende – da un (bel) po’ di anni a questa parte – ecco accontentato chi mi vuole breve e conciso, ma poco professionale. Per tutti gli altri, molte le cose da dire: è figa perché è Apple, ma non basta; è figa perché condensa in un unico apparecchietto tutto ciò che abbiamo nelle nostre tasche, di utile o meno utile (telefono, fotocamera, iPod, connessione internet, etc.), ma non basta ancora; è figa perché è figa, altrimenti che status symbol sarebbe? Cioè, è figa proprio perché è uno status symbol, non trovate?, e quindi tutti la vogliono e tutti la desiderano – io compreso. Però questo lo sapevamo già da tempo, da quando cioè sono iniziate a girare le voci a riguardo. E tutto questo, che già sappiamo, è anche tutto quello che vogliamo sapere, di più non ci interessa. E, soprattutto, non ci interessano gli eventuali difetti; anche perché, sinceramente, vi fidate di chi – giornalisti della radio, della stampa, della televisione, blogger che addirittura ospitano sulle proprie pagine i banner pubblicitari della Apple – in queste ore vi fa ampio resoconto di tutte le meraviglie del gingillo – dopo averlo avuto «in prova» aggratis - e, al limite, per non sembrare troppo posizionato a pecorina, vi dice che un difettuccio ce l’ha e sta nel fatto che, per poter scaricare la roba dall’iTunes Music Store direttamente sull’iPhone, dovrete comunque trovarvi in una zona coperta da wi-fi, perché per le cose «pesanti» il gioiello non usa la connessione 3G?
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Non una parola sulle immondizie cui abbiamo assistito ieri grazie ai fascio-manettari radunatisi in quel di Roma, Piazza Navona. Non una parola, giuro. Molto più interessante questo: sono un paio di mesi che vado a correre, e lo faccio solitamente solo con donne. Il risultato? Non ho buttato giù un etto – e fortunatamente non ce n’è bisogno – ma ho imparato tutto su creme e cremine miracolose, roba che ti sparisce la cellulite in dieci giorni – dicono loro. E sulle diete delle cantanti e attrici famose; oggi, per dire solo dell’ultima, ho passato un’ora a cercare di capire – tra un chilometro e l’altro – come cazzo ha fatto Beyonce a perdere – dicono le mie compagne di corsa - «9 chili in 15 giorni». Che poi gli americani mica misurano in libbre?
L’autore del blog Liberalista, ispirato da sinceri moti di liberalismo e di liberismo, si chiede se l’italiano medio lettore di quotidiani sarebbe disposto a pagare una copia del suo giornale 1,20 euro anziché l’euro tondo tondo che la maggior parte dei giornali italiani costa a copia. Il ragionamento che sta alla base della domanda è molto semplice: fatti due calcoli, in questo modo si potrebbe eliminare il finanziamento pubblico alla stampa senza che gli editori ci perdano, con conseguente diminuzione delle tasse a carico dei cittadini. Ciò che non si capisce è altro: i conti di Liberalista – e non abbiamo motivo di pensare che siano sbagliati – stimano in 30 euro annue – su circa 15.000 - la quantità di tasse versata a causa del finanziamento pubblico all’editoria da un capofamiglia operaio, quindi da un rappresentante del ceto «basso». Francamente non mi sembra una cifra che possa fare la differenza anche in un periodo di crisi – è traducibile, per dire, nella famosa formula «un euro al giorno» grazie alla quale lo stesso operaio poi si indebita comprando materassi, pentole, il trentesimo telefono cellulare, il mega televisore al plasma e così via, solamente che l’euro al giorno per il finanziamento pubblico alla stampa è da calcolarsi per un mese e non per quindici anni.
Ma sappiamo che è giusto l’assunto secondo il quale uno stato liberale deve sempre e comunque abbassare le imposte, seppur di un euro al giorno per un mese per i ceti più poveri. Ciò detto, l’idea di togliere il finanziamento pubblico ai quotidiani continua a non stare in piedi, e proprio a causa di quel pluralismo di voci – che Liberalista pone tra virgolette, quasi a volerlo screditare - fondamentale in una democrazia. In Italia sono pochi i giornali che continuerebbero a vivere, e dignitosamente, senza il finanziamento pubblico, e sono quelli che fanno capo a grandi o medi gruppi editoriali che rappresentano un singolo grande imprenditore quando va bene, o un enorme azionariato di interessi personali nell’altra ipotesi. Pensiamo a come sarebbe se, per dire, solo i quattro o cinque più grandi quotidiani nazionali – mi riferisco a Corriere della Sera,
Scrive Liberalista a sostegno della sua tesi: «se nemmeno i comunisti comprano il manifesto, perché dovrei finanziarlo io?», e qui vengono richiamate tutte le cooperative e tutti gli organi di partito – veri o presunti, grandi o piccoli – che affollano il mercato editoriale italiano. Una premessa è comunque d’obbligo, e cioè anche i «piccoli» quotidiani non vivono solo di finanziamento statale: molti di essi, infatti, esauriti i soldi, chiudono o vengono assorbiti da altre testate (pesco, dal mucchio, l’esempio più clamoroso degli ultimi cinque anni, ovvero l’Indipendente nato e morto tre o quattro volte ed ora «reincarnatosi» in Liberal di Ferdinando Adornato). Questo per dire che il rischio d’impresa continua ad esserci: segno che «se un prodotto tira», per dirlo con Liberalista, vive o muore sia esso finanziato o no. E poi, mi si segua, se io non voglio finanziare l’Unità perché sta anni luce da quello che è il mio pensiero, per quale motivo un lettore di Liberazione dovrebbe finanziare l’Opinione che, con tutto il rispetto per Arturo Diaconale e per il foglio spesso interessante che dirige, vende molto ma molto meno del manifesto, di suo perennemente a rischio chiusura? Il perché è molto semplice: perché in una democrazia è giusto che vengano finanziati tutti i giornali che ne abbiano i requisiti, indipendentemente da quello che è il mio pensiero politico, culturale o intellettuale. Semmai, bisognerebbe andare ad indagare proprio sui requisiti per accedere al finanziamento, e far sparire i fogli farsa utili solo a nascondere truffe ai danni dello Stato e che, non contribuendo al pluralismo di voci in vita, non contribuirebbero nemmeno al suo disfacimento in caso di morte. Ma è un altro discorso, molto diverso.
Forse ho però capito dove si vuole andare a parare: c’è in ballo un equiparazione molto di moda nella cosiddetta «blogosfera», e cioè il desiderio di essere paragonati se non in prestigio almeno in funzione ai quotidiani «classici», senza considerare che sarebbe una sciagura se il mestiere di blogger pur preciso e puntiglioso – e, perché no?, bravo – andasse a sostituire quello del giornalista. Scrive infatti Liberalista che se non si vuole proprio eliminare il finanziamento pubblico all’editoria, allora lui troverà il modo di trasformare il suo blog in una testata politica e inizierà a prendersi il suo bravo finanziamento, che ha già quantificato in «5-6 milioni di euro». Al di là del fatto che per essere testata bisogna registrarsi al tribunale, e ci vuole un direttore responsabile e non è proprio una cosa semplice, mi viene solo un dubbio: e il povero operaio? Non vorrei che, iniziando ad abbeverarmi alla fonte, me ne fregassi della provenienza dell'acqua.
In un vecchio editoriale del Foglio, spesso citato a torto come l’emblema dell’inutilità del finanziamento pubblico all’editoria da parte dei soliti tromboni che poi vivono grazie al lavoro svolto per quotidiani finanziati dallo Stato, era scritto che «l’esperienza ultradecennale di un piccolo giornale d’opinione come il nostro, che vive anche grazie al contributo pubblico, dimostra che i soldi dello stato spesso garantiscono il pluralismo, tengono a bada le lobby e aiutano a restare indipendenti dalla folla» (Il Foglio, 20.06.2008 – pag.3). In questa frase sta spiegato tutto sul perché il finanziamento pubblico all’editoria è importante. E poi, quel «restare indipendenti dalla folla» mi garba proprio, associa l’idea di indipendenza ad una fugace spruzzata di anarchia e di sano conformismo (di questi tempi, il vero anticonformismo): io, noi, diversi dalla folla. Tu non trovi, Liberalista?
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C’è da capirlo, il poveretto. Non è nemmeno che lo fa apposta ad essere così: è tutta colpa del suo background culturale. Quando pensa una cosa, Tonino Di Pietro, non è che proprio la pensi davvero - mancandogli la facoltà - piuttosto, gli viene – diciamo – e poi gli scappa di bocca. E così «stile mafioso», «magnaccia», «i propri picciotti in Parlamento» non sono pura farina del suo sacco. Sono il frutto della sovraesposizione a quegli ambienti, mescolata ai pensieri del suo amichetto, quello che fa le fotocopie nelle procure, il quale li scrive sui blog e lì Tonino li legge e, da buon villano tutto campi, sole e mietitrebbia, li ripete, a vanvera, pensando di fare bella figura, di ricevere applausi in quantità maggiore rispetto ai rutti – ben più consoni delle pernacchie, visto il personaggio. Giusto un manipolo di gonzi, che era circa il 4% alle ultime elezioni e ora – dicono i sondaggi e questo sì che è un po’ preoccupante – potrebbe valere addirittura l’8-10%, lo segue in piazza, lo incita, lo tributa. Anche oggi, intorno alle 18, assisteremo all’ennesima manifestazione realmente democratica, ovvero fascio-manettara un pizzico di troppo – ma il mondo va avanti, e noi con lui: passata la risata, rientrato il compatimento, c’è altro cui pensare. Perché un villano, al massimo, può essere deriso ma oltre non si va e ci sono cose che, grazie a Dio, fanno anche più ridere.
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Piccolo riassunto delle puntate precedenti: nella giornata di oggi ha iniziato a girare per
«Ma quello che ci interessa di più è l’uso e abuso mediatico delle intercettazioni: dall’articolo di D’Avanzo su
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Ieri praticavo un lungo sfogo contro
L’essere indulgenti a questo modo con
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Dopo le elezioni dello scorso aprile, il cui risultato ha celebrato il ritorno del Cav. a Palazzo Chigi e una schiacciante vittoria del centrodestra su ciò che rimaneva della sinistra ancora rintronata dall’ultima gestione Prodi, alleatasi con i manettari dell’Italia dei Valori e in attesa di compattarsi con i centristi dell’Udc, proprio da sinistra è arrivato uno strano messaggio: occhio alla Lega di Umberto Bossi. Questo perché anche il movimento del Senatur si è visto in quelle elezioni incrementare il numero dei voti arrivando quasi al raddoppio rispetto alla tornata elettorale precedente, e per di più senza nulla togliere al cartello politico del Pdl formato da Forza Italia e Alleanza Nazionale, ma semmai andando ad intercettare, soprattutto al nord, molti voti dei delusi dall’ultima esperienza politica della sinistra operaia e radicale – soprattutto Rifondazione – nell’incarnazione “di lotta e di governo”, culminata con la presidenza della Camera di Fausto Bertinotti e con la fuoriuscita dal Parlamento al giro successivo.
Occhio alla Lega, veniva detto, quasi gli sconfitti si augurassero che proprio il movimento di Bossi, dopo averne intercettato buona parte dei voti, andasse anche a prendere il posto occupato nella scorsa legislatura dalla sinistra radicale, ovvero quello dei ricattatori e dei guastafeste, che tengono la maggioranza perennemente in bilico o la mandano avanti, al rallentatore, a colpi di “no” o di estreme richieste di fiducia per ogni singolo emendamento. Da destra, si replicava che non sarebbe mai stato così, che la legislatura 2001-2006 con
Dopo più di due mesi, pur tenendo presente che la luna di miele tra la maggioranza e gli italiani è ancora in corso e i primi 100 giorni di questo governo non sono ancora passati, si può continuare ad affermare che
Quanto conviene continuare a sottostare a questo ricatto? Poco, pochissimo. Ma pare non ci siano alternative. Se non che un’esperienza da ricattatore porti alla Lega la stessa “fortuna” valsa alla sinistra radicale, e quindi al prossimo giro anche i lumbard finiscano a fare gli extraparlamentari dopo che il popolo, democraticamente, ha deciso con il voto di non rinnovare la fiducia a chi poi persegue solo i propri comodi interessi di bottega e si dimentica di aver controfirmato patti congiunti di governo con gli alleati; a chi, insomma, si presenta come partito di lotta e la butta in sciagura una volta al governo. Se la stessa sorte, dall’altra parte, toccasse anche ai fascio-manettari e ai bambolotti in balìa del giustizialismo, sarebbe la fine dell’anomalia italiana.
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