Stamane intorno alle 6 orario di Baghdad, le 4 qui da noi, è stato impiccato Saddam Hussein. Inutile ribadire la storia del sanguinario dittatore, condannato il 5 novembre scorso, con conferma della condanna in appello il 26 dicembre, per crimini contro l'umanità e risultato colpevole del capo di imputazione, per via della provata strage di Dujayl del 1982, nella quale morirono 148 sciiti. Condannato dunque alla pena di morte per una strage che, se paragonata alle migliaia di morti che la sua carriera ha inflitto, poteva tuttavia essere considerata secondaria, senza chiaramente togliere nulla al valore di quelle vite umane barbaramente uccise.
Immediatamente dopo la sentenza l'opinione pubblica si è divisa in due tronconi, come da migliore tradizione, favorevoli e contrari. I primi usando a sostegno la tesi secondo cui un dittatore così barbaro e sanguinario non può che meritarsi questa fine, senza girare troppo intorno alla serietà del processo o alla situazione in Iraq; i contrari utilizzando le argomentazioni opposte, ovvero l'inutilità politica dell'impiccagione e il rischio che si possano così inasprire ancora di più le lotte in corso, nonché la questione dei diritti umani vìolati, sebbene si stia parlando di un crudele assassino. Ora, nessuno può dirsi favorevole alla pena di morte, perché è barbara, mette l'uomo in una condizione di superiorità rispetto ad altri uomini ed è anche, storicamente, profondamente sbagliata. Però non si può nemmeno supplicare, implorare, arrivare a fare scioperi della fame e della sete perché un dittatore è stato condannato alla forca da un governo democraticamente eletto di un paese nel cui codice civile la pena di morte è contemplata. Continua a farci schifo, Saddam o meno, l'esecuzione capitale per mano dello stato come espiazione della propria colpa e della conseguente pena, anche quando avviene in paesi simbolo della democrazia quali sono gli Stati Uniti. Ma nemmeno possiamo opporci alla decisione di un altro governo, e sebbene la decisione sia stata tormentata, o intrometterci in quelli che sono gli iter processuali e legali di un paese già debole di suo. Infine, che non sia una scusante ma una presa di atto, ricordiamoci che nei paesi Islamici – e più o meno democratizzati – le esecuzioni capitali vengono eseguite, in modo illegale e quindi non previsto dalla legge “ufficiale”, per reati che solo a sentirli nominare hanno del ridicolo, come l'adulterio; eppure le cronache hanno sovente riportato che una donna scoperta nel mezzo di una relazione extraconiugale viene uccisa tramite la lapidazione. Ecco, ribadendo la contrarietà alla pena di morte, sarebbe meglio usare la mobilitazione generale per questi crimini, e non cercare di ostacolare la legge di una paese straniero e in una situazione delicata quale l'Iraq.
Uno degli scenari possibili immaginati in seguito all'esecuzione di Saddam Hussein è quello dell'inasprimento della lotta da parte delle formazioni irachene sunnite e nazionaliste, nonché del fronte del Jihad. L'ipotesi è ragionevole, ma sarebbe ragionevole aggiungere che le lotte – e aspre – da parte di quelle formazioni ci sono state anche prima che Saddam fosse condotto al patibolo e, difficilmente, sarebbero cessate qualora l'ex Rais fosse stato graziato. Le fazioni di lotta useranno l'impiccagione dell'ex dittatore come ulteriore alibi per le loro lotte, come ulteriore atto d'accusa nei confronti degli Stati Uniti, dei suoi alleati nonché dello sporco Occidente tutto. Non è la prima volta che ciò avviene, e non sarà nemmeno l'ultima. La lotta, in ogni caso, sarebbe perseverata comunque.
L'Italia si è spesa in modo particolare contro questa condanna. I Radicali hanno iniziato – e, pare, stiano continuando – uno sciopero della fame e della sete per cercare di impedire l'esecuzione; nonostante le buone intenzioni, il tentativo è risultato vano, anche se un risultato Pannella e i suoi l'hanno sicuramente raggiunto: offrire a chi va sempre e comunque contro di loro una argomentazione forte per dimostrare la loro contraddizione: scioperi della fame e della sete per staccare la spina ad un malato e farlo morire, e medesimi scioperi nel tentativo di far convertire l'esecuzione in trent'anni di carcere per un sanguinario dittatore. Non solo i radicali, anche la sinistra più o meno estrema ha speso parole caritatevoli contro la condanna a morte di Saddam Hussein. Tutto un coro di “azione deplorevole” e “ingiustizia”, quando nessuno di loro spende anche solo mezza parola per gli amici cubani o cinesi (arrestati nove preti perché stavano pregando “illegalmente”) che vengono ancora uccisi, o nei confronti degli studenti contestatori di Ahmadinejad che spariscono o sono costretti a scappare per non incorrere in torture o peggio nella morte. A dimostrazione che il finto pacifismo di casa nostra viene strumentalizzato a seconda dell'evenienza, in questo caso la dimostrazione di un filoislamismo contrastante rispetto alle politiche degli Usa. Infine, come ha ricordato anche Martin Perez, direttore del magazine americano e liberal New Republic, in un fondo per il suo giornale, perché Prodi si è speso in una condanna dell'esecuzione di Saddam quando in Italia gli avi dei suoi compagni di coalizione – gli stessi che ora sono contro la pena – hanno barbaramente e senza processo ucciso Benito Mussolini, nonché Clara Petacci, e dopo l'esecuzione li hanno portati “in trionfo” in centro Milano per far si che il loro cadaveri prendessero gli sputazzi del popolo italiano il quale, come noto, si eccita anche e soprattutto in questo modo? Altra strumentalizzazione, verrebbe da dire: il Duce è uno sporco fascista – parole che vengono usate anche ora, a due giorni dal 2007 – mentre Saddam l'ex dittatore di un paese in guerra con gli Usa, quindi per spirito di contraddizione applicato in modo transitivo, giusto che Saddam non venga ucciso – nonostante sia uno sporco fascista.
Ribadire la contrarietà alla pena di morte è sempre doveroso e necessario, ma in questo caso poco si poteva fare. Il popolo iracheno, la parte curda e sciita, era già pronta a festeggiare ed ha mantenuto le promesse non appena il video dell'esecuzione, prova provata della definitiva scomparsa dalle scene di Saddam Hussein, è stato trasmesso. E la felicità di queste persone, espressa nei caroselli dove la bandiera Irachena si confondeva con quella Americana, era un qualcosa di spettacolare per noi, figuriamoci per loro che si sono visti liberi finalmente dopo anni di dominio, di corruzione, di torture e di crimini efferati. Se “l'atto di giustizia” proclamato da Bush per noi può apparire un'esagerazione, per il popolo iracheno in festa sicuramente no. E la gioia ha dominato, nonostante l'autobomba immediatamente esplosa nella città sciita di Kufa. E si parla di almeno 35 morti, forse gli ultimi riconducibili alla mano di Saddam.
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