[il primo maggio in piazza San Giovanni a Roma, proprio quando una miriade di persone si accingeva ad assistere a quella cosa indefinibile e con sempre meno successo di pubblico e critica chiamata “concertone” e regalatagli dalle tre sigle sindacali, Mario Segni mentre raccoglieva le firme per il referendum sulla legge elettorale è stato aggredito da un gruppuscolo di stronzi. La cosa da queste parti è stata subito considerata talmente una coglionata, una vigliaccata, un'insensatezza per un paese come l'Italia, che non si è voluto commentare il fatto: qualsiasi cosa avrei scritto, sarebbe stata inutile, banale e scontata. Poi succede che con un paio di ore di tempo mi vado a ripescare alcuni articoli dei quotidiani dei giorni scorsi, quelli con il titolo contrassegnato da un bel cerchio rosso fatto con la matita bicolore – piccolo vezzo che mi concedo quando voglio rimandare ad una lettura maggiormente approfondita, o semplicemente sul momento non ho tempo. Bene, ieri l'occhio mi è caduto su un gran pezzo a firma di Francesco Merlo, “quell'assalto al disarmato professor referendum” [la Repubblica, 04.05.2007, pag.1], il quale fa una sintesi perfetta di quanto è successo e un'analisi quasi interamente condivisibile – e il “quasi” è per via di una qualche sottigliezza che non mi sento di sottoscrivere. Scopro poi stamane, tra l'altro, che Il Foglio lo ripubblica sul suo numero del lunedì, a pagina 1, al posto del consueto editoriale dell'elefantino, con il titolo molto più eloquente di “Bertinotti, vergognati”. La lettura è talmente consigliata a tutti voi che vi risparmio di andare a cercare nell'archivio di Repubblica.it, o in quello della rassegna stampa della Camera dei Deputati, o nel cestino dei rifiuti del vostro studio. Eccolo, qui sotto in tutto il suo splendore – poi non ditemi che non vi voglio bene.]
Seppelliti dagli strepiti per una violenza, pretesa e virtuale, contro il Papa, abbiamo tutti colpevolmente messo la sordina alla violenza, reale e fattuale, del Primo Maggio: quella contro il disarmato e disarmante Mario Segni. Eppure, l'aggressione fisica, in piazza san Giovanni a Roma, al più mite degli italiani; il raid dei giovani di Rifondazione contro “l'uomo delle firme”. L'assalto al mansueto Professor Referendum è una campana che dovrebbe suonare per tutto il Paese, perché è una di quelle violenze contro l'inerme e l'innocente che hanno segnato la parte più odiosa della storia d'Italia. Ancor più strano è questa aggressione, carica di simboli e significati, sia invece, nel migliore dei casi, finita tra le notizie brevi, raccontata come una bizzarria del festoso primo maggio e non come una violenza politica ispirata da una politica della violenza.
È vero infatti che la violenza è sempre riprovevole, ma diventa orribile quando si accanisce contro un vecchio filosofo (Gentile) o quando bestialmente si rovescia su un intellettuale armato solo di critica (Gobetti). Certo, qui siamo, grazie al cielo, ben lontani dall'esito letale, dall'omicidio; qui alla fine nessuno si è fatto veramente male. Ma l'aria di famiglia è la stessa. C'è infatti la stessa intolleranza: “Ehi, Segni, questa piazza è nostra, tu non puoi starci”; c'è la viltà dei tanti contro i pochi: “Cosa ci fai tu, democristiano, tra le nostre bandiere?”; e, ancora, c'è la ferocia dei giovani contro il vecchio, e poi gli spintoni, le mani che si alzano per colpire, i bastoni, i tavoli rovesciati, le carte stracciate e le firme sottratte, una folla di altri giovani ostili che si gode lo spettacolo, l'odio per chi ha un pensiero diverso dal tuo: “Cacciamo via questo qualunquista”. Ecco: del fascismo quel che non ci piace non è il sistema delle corporazioni, ma questo, è la viltà.
Gli aggressori sono estremisti di sinistra, “sicuramente erano militanti di Rifondazione” conferma Mario Segni. Insomma erano giovani comunisti che ovviamente sono scappati e che davvero sembrano usciti da una drammatica parodia delle squadre fasciste, aizzati come fossero dei cani contro un uomo che da venti anni coltiva il sogno di cambiare la sostanza degli italiani cambiando la loro forma elettorale. E che adesso, dopo essere diventato nonno, invece di fare il referendario in pensione, e magari anche il padre della patria, è di nuovo per strada a raccogliere firme, a fare cioè la cosa più ingenua che si possa fare in politica, che è rapporto di forze, è potenza.
Picchiare un uomo così, un professore che lavora sullo spirito, sull'immaginario, sull'idea ossessiva che la cultura diventi il pane della politica, che il codice della cultura possa essere applicato alla politica; picchiare, insomma, Mario Segni è la prova definitiva che non ci sono più tra di noi, come negli anni di piombo, ragazzi che si trasformano in criminali della politica perché ubriachi di politica, ma solo ragazzi ubriachi che fanno politica.
Perciò la sera del primo maggio ce li immaginiamo, questi giovani aggressori di Mario Segni, mentre festeggiano all'osteria, come facevano i “bravi” manzoniani e come facevano appunto gli squadristi che picchiavano i professori, i sognatori, i deboli e poi, via, al bordello, a brindare per ogni testa che avevano spaccato. Quelli, che erano gli arditi di Mussolini, almeno avevano l'abitudine di tenere il mento in su, mentre questi che dicono di essere i comunisti di Bertinotti quando occorre usano il passamontagna.
È vero che Bertinotti ha scelto la non violenza e che “fa l'indiano”. E però, prima dell'aggressione, ha detto ai suoi militanti che “il referendum mina le basi della democrazia” e, solo dopo l'aggressione, ha spiegato loro che “la raccolta delle firme deve comunque essere garantita”. Prima ha detto una cosa sconsiderata, ben più sconsiderata e violenta delle battute sul Papa pronunziate dal presentatore Rivera sul palco del primo maggio, e solo dopo Bertinotti ha parlato come il filosofo scalzo, quello consegnato al recente ispiratissimo libro La città degli uomini. Prima ha armato ideologicamente gli anfibi dei suoi ragazzi e poi ha fatto il saggio gandhiano.
Ma si può ancora accettare questo gioco con la verità, con le due verità, con l'ossimoro, con il nicodemismo? Ed è possibile che gran parte della cultura e del giornalismo italiani debbano ritenere insignificanti tutto questo e indignarsi invece perché un sedicente comico, senza fare ridere, ha stanato l'arroganza dell'Osservatore Romano? Chi è stato più comico: il presentatore Rivera o l'Osservatore Romano?
Qualcuno dice che anche questo altro referendum di Mario Segni sia, politicamente parlando, molto importante. E, certo, Rifondazione ha tutto il diritto di pensare che un sistema maggioritario vada evitato e che bisogna invece continuare a vivere in regime di democrazia assembleare. A noi, che non crediamo più alla forma che cambia la sostanza di un Paese, ci interessa solo che è stato picchiato Mario Segni, l'uomo che incarnò per un momento l'alta illusione collettiva di trasformare tutti i politici italiani, compreso se stesso, in agili e leggeri trasvolatori, in tanti Icaro a cui attaccare le ali di cera della modernità, del mito anglosassone, della civiltà del maggioritario, dell'alternanza e della stabilità.
Gli estremisti sanno che Segni non dispone di una massa critica, che non esiste in Italia il mariosegnismo e perciò credono che si possa fare davvero a Segni quel che a Bagnasco si minaccia sui muri, perché Segni non ha clero, non ha uomini nelle commissioni, negli enti locali, in Parlamento e neppure fa paura ai giornali. Si sa: Segni è quello che ha perduto l'occasione, che è politicamente un ingenuo, che è fuori ed è oltre. Se fosse un colore sarebbe il celeste che i bertinottiani di San Giovanni considerano stinto, un blu indebolito, ma che per molti altri italiani potrebbe essere altezza, o cielo; e se invece fosse un sapore, Segni sarebbe la vaniglia, che gli squadristi di piazza San Giovanni considererebbero dolciastra indecisione e altri sobrietà e festa di nuances. Così in politica l'altra faccia dell'ingenuità e della superfluità è l'innocenza, è la pulizia.
E va bene che siamo in tempi di politica semplificatoria che, a testa bassa, non sopporta le mediazioni e le articolazioni complesse, ma i fantasmi di combattimento, gli scarti di piazza San Giovanni ci parlano di un'Italia e di un'ennesima forma di violenza che in fondo non ci aspettavamo, ma che esiste e con la quale dobbiamo imparare a convivere, come ci accade con gli incidenti stradali. La politica della violenza, che era levatrice di storia, è ormai violenza senza politica, affronto che galleggia sulla storia. Chi, come Mario Segni, l'ha subita, ci dice che “non è successo niente”, esattamente il contrario di chi, come l'Osservatore Romano, non l'ha subita.
Ma forse Segni parla così solo perché non capisce una violenza che non ha più neppure il conforto di un ragionamento politico che la renderebbe meno bruta e ingiustificata. Comunque, adesso lo sappiamo: nella nostra politica ci sono anche gli scarti di piazza San Giovanni. È come l'immondizia che non riusciamo a smaltire.
Francesco Merlo,
la Repubblica 04.05.2007, pag.1