Andrea Vesalio, tavola tratta dal “De Humani Corporis Fabrica”, 1543
C'era una volta un Direttore che dall'editore fu chiamato in fretta e furia perché – diamine – c'era la campagna elettorale da portare avanti, e quello che quest'ultimo ha voluto al timone e lasciato fare fino ad allora gli stava facendo un giornaletto sgangherato, letto più da radicali ed anarco-individualisti che da coloro i quali si suppose avrebbero dovuto leggerlo. Ed ecco che, arrivato il nuovo direttore, il giornale non si capisce più, né dall'esterno né dall'interno. Una copia sbiadita di un giornalone di partito che il direttore aveva già avuto modo di dirigere, ma spalmata però su un quinto delle pagine rispetto a quelle che allora aveva a disposizione. Disordinato, con una linea che non si capiva bene quale fosse, dove andasse a parare se non nei piccoli interessi di bottega come la corrente dell'editore e la salvaguardia di certi alleati - ma sì, diciamolo, senza una linea. C'era un vago andamento conservatore di centrodestra, ma fiacco, sbiadito, inutile, talmente banale da non essere praticamente ascoltato e preso in considerazione da nessuno. E poi, inutile dire che, cambiato il direttore, cambiò anche il lettore: quelli di prima, che difesero a spada tratta quell'illustre e magnifico storico che firmò un giornale forse sì un po' sgangherato e pasticciato, ma anche dannatamente vitale – quelli di prima, dicevo, piano piano mollarono la scialuppa, scapparono inorriditi. Qualcuno continuava ad alimentare con qualche letterina la rubrica della posta, ma anche questa, come una zuppa saporita ma eccessivamente annacquata, aveva preso la forma di chi la gestiva, ed era diventata sterile, scialbetta e pure un po' insipidina, con risposte scontate e un “si pubblichi!” che sembrava esteso a chiunque avesse un paio di ruttini da rendere pubblici – sottoscritto, con ogni probabilità, compreso [*]. Non ci fu ricambio di lettori, e la zatterina – senza una guida forte e autorevole e conosciuta e capace di lasciare il segno finanche sull'ultima virgola dell'ultimo più inutile articolo – colò a picco: le pagine iniziarono ad essere disponibili sul sito in coincidenza con la loro scomparsa dalle edicole, che quasi si faceva prima a trovare il New York Times in provincia che quel foglio tinto di azzurrino ormai sbiadito – e, tutto questo, fino al conseguente tracollo e cambio di editore, anche perché la elezioni nel frattempo c'erano state e la campagna elettorale, nonostante il vecchio amico, funzionò poco.
[*] e qui, per Dio, volevo arrivare. Anche il sottoscritto ogni tanto si divertiva a buttare giù un paio di righe, ad indirizzarle alla e-mail della redazione e a premere “invia”, sicuro di trovarle pubblicate nel giro di due giorni, perché sembrava che non buttassero via nulla – al punto che, una stessa lettera, l'ho vista pubblicata due volte nel giro di un mesetto e con due risposte diverse sempre dalla stessa persona, per rendere l'idea della situazione. Ogni tanto dicevo che non mi andava quell'articolo, e un paio di volte ho contestato in modo pacifico l'idea di guadagnarsi le citazioni nella rassegna stampa radio-televisiva al fine di raccattare una manciata di disperati lettori sostenendo una manifestazione che non andava in alcun modo sostenuta – e tutti, in quella via centrale di Roma dove imbastivano le pagine e facevano quadrare i conti, lo sapevano. Fino all'ultima volta, quando scrissi sì a mo' di battuta – e premettendo la battuta stessa – ma anche con sincera convinzione, che la difesa di bottega degli alleati rompicoglioni – in particolare sintonia, suppongo, con la corrente dell'editore – era un po' assurda e che quelli si facevano i cazzi loro e, insomma, era impossibile difenderli. Poi, come ho scritto sopra, fu il tracollo, e il direttore, già Onorevole e membro del cda di una cosa pubblica importante, si è ritrovato a scrivere su un quotidiano libero ed indipendente ed orientato a destra – uno di quelli che, coincidenza, non manca mai nella mia mazzetta. E cosa ci trovo scritto su quelle pagine lo scorso 6 febbraio, circa l'ex alleato che avevo osato criticare e che, conseguentemente alla risposta, mi portò a raggiungere gli altri 5-6 mila lettori già in fuga da quel giornaletto? Né più né meno quello che noi si sosteneva da tempo, con però l'aggravante – se così si può dire – di una posizione privilegiata (l'alleato, o ex tale, scomodo sicuramente legge questo giornale che vende un centinaio di migliaia di copie al dì) e di un vocabolario a questo giro insospettabilmente ricco e colorato e pungente. Tanto da arrivare a definire il tizio in questione “tanto ingenuo”, il suo progetto come “una democristianeria bizantina che in un Paese serio neppure verrebbe presa in considerazione”, la sua rivoluzione “casinista”, con banale gioco di parole sul cognome della persona in questione, e addirittura la sua figura e il suo personaggio aventi il destino di “chi non ha il senso della storia”. E io, io che in quella famosa lettera scrissi che “Caro direttore” - perché l'educazione prima di tutto - “mi faccia fare una battuta” la quale “rispecchia perfettamente l'animo dell'elettore di centrodestra. Lei nella rubrica delle lettere del 3 maggio risponde al signor xxx” che “l'Udc compatte la stessa battaglia delle altre forze della Casa delle Libertà” e, scrissi – ecco la battuta, come vedrete innocua – che era sì vero, ma la conduceva “fuori dalla Cdl e contro questa”. La risposta fu acida, secca e persino irriconoscente nei confronti di chi, in fondo, tutte le mattine versava un euro e in più gli mandava un riempitivo contro l'imbarazzo degli spazi vuoti che sarebbero rimasti altresì frequenti: “Ecco, la sua è appunto una battuta. Niente di più”. E così fu, tanto che rintracciare questo scambio epistolare mi è stato di una facilità assurda: preso il comparto della collezione cartacea di quel giornale, era l'ultima copia sulla destra. L'ultima acquistata.