martedì, marzo 31, 2009



«God Save The Queen / Her Fascist Regime»
Sex Pistols, «God Save The Queen», 1977

Pare che il segretario del Partito Democratico incontrando ieri i cronisti della stampa estera abbia dato loro un cd (alcuni quotidiani riportano un dvd) in cui si spiega il potere di Silvio Berlusconi, in special modo quello mediatico. Tralasciando la domanda più ovvia, ovvero quanti cd/dvd sono stati «bruciati»; tralasciando il fatto che proprio Berlusconi, mediaticamente un asso senza rivali, ormai distribuisce chiavette USB le quali, seppur magari griffate Pdl, possono essere riutilizzate dal giornalista come meglio crede; tralasciando anche che Veltroni, tecnologicamente più avanzato, avrebbe sicuramente fornito un link web dal quale scaricare il contenuto di cotanta scoperta. Tralasciamo tutto questo, ma non la questione principale: fino a che esisterà un Franceschini che convoca una conferenza stampa per dichiarare alla stampa estera il nulla (a meno che qualcuno dotato di prolifica fantasia riesca a indicarmi qualcosa di concreto), poi non ci dobbiamo stupire se quelli della stampa estera, ascoltati i loro inviati, verghino dai loro uffici londinesi cazzate come questa.

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sabato, marzo 28, 2009

quella volta che la musica è stata uccisa due volte, e sempre dalle stesse persone

Gino Castaldo, uno dei maggiori critici musicali italiani nonché storico critico musicale de La Repubblica, qualche mese fa ha pubblicato un libricino – un «pamphlet» dicono quelli che ne sanno – di denuncia, una vera e propria (secondo l’autore che ne ha fatto il sottotitolo del suo lavoro) «ode in morte alla musica». Il leggero volumetto («Il buio, il fuoco, il desiderio», Einaudi Stile Libero, 155 pp, 11,50€), che si beve tutto in un fiato, parte da una tesi ben precisa e facilmente intuibile: la musica è morta. Non nel senso che sia morta realmente, ma nel senso che i tempi moderni mancherebbero di una colonna sonora, è tutto un ricicciare il passato e manca l’innovazione vera e propria che possa dare un’impronta a questi primi anni del nuovo secolo. Insomma, manca la rivoluzione musicale che lascerà il segno, di quelle che ciascun decennio precedente al nostro ha, nel bene o nel male, avuto. E questa colonna sonora dei giorni nostri, avverte l’autore, non manca non perché non ci siano «musicisti di valore, molti che a livello individuale soddisfano la dignità della ricerca stilistica» bensì perché l’impressione che il Castaldo ne ricava è «come se qualcuno abbia premuto il tasto “pausa” agli ingranaggi dell’evoluzione culturale» e l’ascoltatore preferirebbe quindi illudersi che questo sia un «meritato letargo» anziché «un pigro abbandono al nulla». La dimostrazione alla tesi viene poi data attraverso una serie di esempi di quando la musica – ovviamente si fa riferimento all’ambito «popular» – è morta in seguito ad avvenimenti storici e il corollario alla dimostrazione, la via di uscita, viene data attraverso varie modalità di come la musica debba essere «liberata, per poterla riascoltare». Per quanto la tesi di Castaldo sia comprensibile, personalmente non la condivido, perché a grattare un po’ il sotto il mainstream, sotto quello che passa il convento, sotto quello che sembra essere l’unico elemento esistente e quindi fruibile, si trova non solo l’innovazione culturale (parolona di per sé fastidiosa), ma anche dell’ottima musica la quale solo per il fatto di non poter essere pubblicata sulle pagine di Repubblica (proprio per la sua provenienza non mainstream) mica vuol dire non possa essere un’ottima colonna sonora dei giorni nostri – e dei giovani nostri, sembra intendere Castaldo, i quali infatti non comprano l’ultimo disco di Mina e molti nemmeno quello degli U2.
Ma il punto di questo post, evidentemente, è un altro. Il libro di Gino Castaldo l’ho comprato sul finire dello scorso anno, appena uscito (quella in mio possesso è la prima edizione – novembre 2008). L’ho letto, come detto, tutto di un fiato. Ne ho apprezzato l’analisi, talvolta anche alcuni sfoghi ma – ripeto – non la tesi di fondo. Quello che interessa a me, ora, è una questione più cronologica che di merito. Ricordate: novembre 2008.
Salto nel tempo. Sul Foglio [28-03-2009, p. IX] Stefania Vitulli scrive una paginata in memoria della musica che fu. Quella dei suoi tempi – par di capire gli anni Ottanta, e il post-punk di Cure e Siouxsie & The Banshees, seppur viene difficile capire come, da adolescenti, insieme ai due gruppi sopracitati quelli della sua generazione avevano anche i Nirvana, ma vabbé. La musica che fu e che ora non si ritrova più nei dischi, semmai nei romanzi scritti da ex artisti del periodo o che hanno per protagonisti personaggi che ascoltano quegli artisti. Una piccola morte della musica anche in questo caso, sebbene sembrerebbe essere una morte della musica che piace alla Vitulli anziché – come nel caso di Castaldo – della musica di massa in generale. Anche qui, però, non entro nel merito più di tanto. Ciò che ha attirato la mia attenzione, nel pezzo della Vitulli, è è il modo in cui la musica è morta, modo che tanto mi ha ricordato qualcosa di già sentito, di già letto – ma di non citato, in mezzo a tante altre parole, questa volta citate e virgolettate, già sentite e già lette. Precisamente, quanto segue (i corsivi sono miei):
perché in fondo [la musica] è morta infinite volte, no? La musica è finita un’infinità di volte: quando Schönberg [sic!] disse che il futuro era “una melodia di timbri”. Quando David Tudor a Woodstock eseguì il silenzio intitolato di Cage 4’33’’. Quand precipitò l’aereo con a bordo Buddy Holly, Richie Valens e Big Bopper Richardson. Quando Sid Vicious è annegato nel vomito, Robert Wyatt è caduto da una finestra, Mark Chapman ha ucciso John Lennon e Eminem ha lasciato che il suo fan Stan si suicidasse prima di aver letto i suoi appelli disperati. E via così.

Urca, se l’avevo già sentito. E mica mi sbagliavo. Prendo in mano il volumetto del Castaldo, apro a p. 6 e leggo (i corsivi sono sempre miei):
La musica è finita un’infinità di volte. È finita quando Schöenberg disse che il futuro era una melodia di timbri [senza il virgolettato attribuibile al compositore]. È finita il 29 agosto del 1952 quando per la prima volta David Tudor (guarda caso a Woodstock) eseguì il silenzio intitolato da Cage [«da» Cage e non «di» Cage, come nel pezzo della Vitulli] 4’33’’, una suite in tre movimenti in cui il pianista si limitava ad abbassare e rialzare il coperchio del pianoforte per segnalare il passaggio tra un movimento e l’altro. È finita quando l’innocenza del rock’n’roll precipitò il 2 febbraio del 1959 con l’aereo che portava a bordo Buddy Holly, Richie Valens (che aveva vinto il posto in aereo giocandoselo a testa o croce col chitarrist Tommy Allsup, usando una moneta da 50 cent) e Big Bopper Richardson. È finita quando i Kraftwerk capirono che anche un’autostrada aveva una sua propria musica da esprimere, è finita nel vomito di Sid Vicious, è finta il primo luglio del 1973, quando Robert Wyatt cadde per motivi mai del tutto chiariti da una finestra del quarto piano, è finita quando Mark Chapman ha ucciso John Lennon, è finita quando i Devo hanno detto che Satisfaction l’avevano scritta loro che i Rolling Stones l’avevano copiata vent’anni prima, è finita quando Fabrizio De André decise di far iniziare Nuvole in sua assenza, annullando se stesso e con sé anche la figura del bardo-cantore, è finita quando Eminem ha lasciato che il suo fan Stan si suicidasse prima di aver letto i suoi appelli disperati, è finita quando si Sigur Rós hanno inventato una propria indecifrabile lingua dichiarando che non aveva alcuna importanza che qualcuno capisse o no quello che stavano cantando.

Al di là di quest’ultima affermazione sulla lingua dei Sigur Rós (il gruppo francese Magma, per dire di un esempio, negli anni Settanta cantava in una lingua inventata, il Koboïano), la considerazione sul chi ha copiato chi è fuori discussione. Ricordate la data del libro di Castaldo, novembre 2008? Bene, la Vitulli che non ha messo le virgolette forse credendo che non fossero necessarie avendo cambiato una preposizione e saltato un paio di gruppi nell’elenco, poteva almeno citare il libro come ha fatto per altri titoli. Una forma di correttezza, nient’altro.

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lunedì, marzo 23, 2009

Boom!

La notizia del giorno, senza dubbio, sono i complimenti che Giuliano Ferrara ha fatto a Gianfranco Fini [Parliamo con l'Elefante, Radio 24 - 23.03.2009].

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Aan meets Eyes like Saucers, "Kristallivirta"

Prendete due personaggi dell’underground musicale già di loro bizzarri: Jeffrey Knoch, meglio conosciuto come Eyes Like Saucers, e il duo finlandese Jani Hirvonem e Jari Koho, conosciuti invece come Aan. Chiudeteli nel quartier generale degli ultimi due, a Helsinki, e fategli suonare qualcosa che non sia opera loro. Cioè, fate sì che loro creino solamente lo spazio per l’emergere dei suoni, per l’emergere di musica creata con harmonium, oscillatori e percussioni. Quelli che ne capiscono, chiameranno questa cosa «weird folk», ovvero un tipo di musica folk alquanto bizzarro, moderno. A noi, delle definizioni interessa veramente poco. Molto di più, invece, ci affascina la genesi del disco: cinque lunghe improvvisazioni, registrate in un giorno di gennaio del 2008 e date alle stampe mesi dopo per i tipi di Last Visibile Dog. Un viaggio ipnotico e allucinante, dove su tappeti di droni e tessuti elettronici emergono giri percussivi che mandano in trance. Chi vuole – ma non è per tutti – non lo troverà nei negozi, e dovrà per forza farselo arrivare dal suo record store di fiducia o prenderlo direttamente sul sito dell’etichetta. Non preoccupatevi se non vi siete segnati il nome lungo e contorto: rimarrà qui a lato per un po’, nei consigli per gli acquisti.

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Anche io svendo i miei pensieri a qualcuno che li gestisce sul blog

In molti hanno mosso critiche all’edizione italiana di Wired. Anche io, nel mio piccolo, qualcosa l’ho detta, e tutto ciò che ho trovato insopportabile lo potete leggere qui. Il direttore del giornale, alcuni giorni fa, ha fatto pubblicare una lettera sul blog di Massimo Mantellini per cercare di difendersi da alcune di quelle accuse. Senza entrare troppo nel merito, una cosa mi ha colpito più di tutte; tra le accuse, c’era quella dell’eccessiva presenza di pubblicità, sia sulla rivista cartacea, sia sul sito internet di Wired. Riguardo quest’ultimo mezzo, il direttore Riccardo Luna ammette tranquillamente che preferisce «non parlare del sito: è gestito da un’altra società, in un’altra città, in un altro paese, da un’altra redazione e da un altro direttore. A wired.it faccio i migliori auguri e assicuro piena collaborazione ma non tocca a me difenderli da eventuali critiche.».
Scusate, ma che senso ha fare un giornale come Wired e “appaltare” la gestione del sito internet del giornale a gente totalmente indipendente dalla redazione del cartaceo?

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sabato, marzo 07, 2009

affettuosità editorial-musicali.

Tommaso Pincio, giovane scrittore, recensisce su Rolling Stone [aprile 2009, p. 178] il libro Musica di plastica – la ricerca dell’autenticità nella musica pop (ISBN, 256 pp., 29,00 €) di Hugh Baker & Yuval Taylor. Libro di cui avevo sentito parlare bene già quando uscì oltremanica qualche anno fa con il titolo di Faking It! (Faber & Faver, 288 pp., 14,99 £). E libro che oggi, durante la mia scorribanda settimanale o quasi in libreria, ho acquistato malgrado il prezzo che spero mi sarà ricompensato dalla lettura. Caso vuole che la recensione del Pincio l’abbia letta pochi minuti fa, quindi dopo aver acquistato il tomo; e siccome oggi, tornato a casa, il libro ho iniziato a sfogliarlo spinto dalla curiosità, finendo per leggerne poco meno della metà (la rima non è voluta), ho capito che il Pincio il libro l’avrà sfogliato pure lui, magari leggiucchiato qua e là saltando a pie’ pari mucchi di pagine, e poi buttato giù una recensione. Nel primo capitolo si parla di Kurt Cobain? La recensione parlerà moltissimo di Kurt Cobain – e capirai che fatica, dal momento che il nostro su Cobain ha già scritto nel 2002 il romanzo Un’amore dell’altro mondo (Einaudi, 302 pp., 8,50€). Nel primo capitolo la tesi di fondo dei due autori è che il voler rimanere autentico a tutti i costi ha portato Cobain ad uccidersi pur di non deludere i suoi fans? Nella recensione si scriverà che la tesi è «tanto melodrammatica quanto discutibile» - ma le altre, di tesi, quelle sparse negli altri capitoli? Nel primo capitolo sta scritto che Courtney Love – moglie di Cobain – una volta ha detto «fingo talmente bene che ormai mi viene spontaneo»? Si chiude la recensione con «O forse ha talmente ragione Courtney Love nel dire», segue citazione. Nel primo capitolo si cita la trasmissione Unplugged di MTV come paradosso? Nella recensione sta scritto che «senza contare il paradosso che a proporre una simile macchina della verità è stata l'emittente colpevole di avere trasformato la musica in un prodotto dove l'occhio la fa da padrone.» Risultato: sembra un libro che parla dei Nirvana, del blues nero americano, dei Public Image Ltd, della sociologia musicale ai tempi di MTV e di poco altro deducibile dall’indice. L’importante – ho pensato io che però sono un po’ stronzo – era far contenti Massimo Coppola (direttore editoriale ISBN, editorialista di Rolling Stone), Alberto Piccinini (senior editor ISBN, collaboratore di Rolling Stone) e Claudio Antonelli e Fabio De Luca (rispettivamente direttore e vicedirettore di Rolling Stone, entrambi autori del libro Disco Inferno, uscito per ISBN). La più classica delle affettuosità editoriali, quindi. E non è che siccome c'è un leggero conflitto di interessi tra autori, editori, direttori, etc il libro non meriti lo spazio che ha avuto, figuriamoci se sto qui io a far la morale sui conflitti veri o presunti. Semmai, è il tenore della recensione che insospettisce. Se la leggevo prima, col cazzo che tiravo fuori 29 euro in tempo di crisi – e nonostante continuino a dirmi che il libro sia proprio bello. Semmai ci ritorniamo sopra.

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da dove mi leggono/3

m'inquieta.

La questione legale, in sé, la lascio perdere ché non sono buono a fare questo genere di commenti. E poi, sinceramente, già in troppi hanno infilato il loro nasino, o approfittato dello spiraglio per allinearlo al loro sfintere e prodigarsi in commenti quali «mi auguro che non venga concesso il rito abbreviato perchè [sic!] questo deve meritarsi l’ergastolo», «questo essere ignobile deve marcire in carcere […] e dopo il carcere pagherà anche dopo la morte» fino ad arrivare alle certezze che solo il popolino alimentato dal qualunquismo imperante riesce a raggiungere, cose del tipo «è sicuramente colpevole» - perché se siamo tutti allenatori il lunedì mattina appoggiati al bancone dei gelati, per quale motivo non potremmo essere tutti giudici, e andare a pubblicare le nostre sentenze nella pancia della rete?
Detto questo, delle indagini sul delitto di Garlasco c’è un qualcosa che mi inquieta di più di tutto questo sputare sentenze contro o a favore di vento. Mi inquieta da persona esterna, mi disturba nella misura in cui solo chi non ha sentimenti in gioco nella questione può essere disturbato. Mi disturba cinicamente, se solo mi distraggo un attimo da quella che è la questione principale. E l’oggetto del disturbo è la pubblicazione – su giornali, tv e internet – di fotografie private che nulla tolgono e nulla aggiungono non all’indagine, ma alla percezione che il pubblico – esterno alla cosa, è bene ricordare – si forma del caso. Semmai, la percezione, la distorcono. Per quale motivo, mi chiedo, pubblicare le foto di Alberto Stasi, Chiara Poggi e terzo amico assolutamente estraneo alla vicenda, sorridenti in quel di Londra? Perché mostrare una sua foto, in vacanza, e farci una didascalia del tipo «ecco l’ultima foto in vita di Chiara Poggi». Perché porre continuamente l’accento sul fatto che sembrano tre (due più l’intruso, l’amico, ora catapultato in prima pagina) ragazzi normali, spensierati, quando non si capisce quale vuole essere il corollario della dimostrazione che ha come premessa questa normalità? Perché?
Salendo di un paio di scalini sulla strada che conduce al cinismo più bieco, mi spingo più in là. Pare che sul computer di Alberto Stasi siano state trovate delle fotografie di piedi femminili, catalogati in una sottocartella dal nome amateur o qualche bizzarria del genere. Ecco, sto giungendo alla conclusione senza nemmeno sforzarmi: perché mai io lettore, io spettatore, dovrei essere a conoscenza di questa cartella? Non dovrei, e infatti non lo sarei se il tg delle 20 non me l’avesse detto; e una volta che me l’ha detto, penso che debba per forza essere d’interesse. Che poi, scusate, stiamo parlando di fotografie di piedi infilati in scarpe, sandali, infradito, fatte con il cellulare e tenute in una cartella – nemmeno divulgate, ecco. Va bene, forse è un’azione illegittima. Ma viviamo nel 2009, riusciamo a scattare fotografie e girare brevi e non filmati pure con la penna a sfera, per cui non riesco a capire quale grave indizio di colpevolezza o di perversione sia l’avere fatto un paio di foto ai piedi di turiste – se in Italia – o di pulzelle autoctone se il turista al momento era il fotografo. Ecco, tutto questo proprio non me lo spiego. Non l’avrei voluto nemmeno sapere, perché potrei farmi un’idea sbagliata, e non sarebbe giusto. Metti che poi il giudice, quello vero, decida che Stasi in carcere non ci debba nemmeno andare, figuriamoci addirittura marcire?

venerdì, marzo 06, 2009

Carlo Rossella al Corriere?

«Chi si muove suda e perde di vista la carriera. Rossella non ha mai sudato tranne che nella sauna». Così Vittorio Feltri [Libero, 06.03.2009 – p.1] anticipa la possibile (?) futura direzione di Carlo Rossella al Corriere della Sera.

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Un tanto al milione

Stamattina a SkyTG24, a commentare in studio la notizia dell'ennesimo ritorno sulle scene di Michael Jackson, c'era uno dei più pittoreschi, dei più simpatici, dei più storici e – perché no? - anche dei più bravi critici musicali italiani: Paolo Zaccagnini, un uomo chiamato virgola. Certo che però affermare che Thriller abbia venduto «33-34 milioni di dischi» è decisamente impreciso oltre che irrispettoso - milione più, milione meno?. Piacca o meno, a seconda delle fonti si oscilla tra i 100 e i 109 milioni, con la Sony che dichiara di venderne ancora all'incirca 500.000 copie l'anno.

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giovedì, marzo 05, 2009

per i soldi basta mettere gli Adsense

Sei senza lavoro? Segui un blog dedicato alla crisi. O, meglio ancora, creane uno.

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Da dove mi leggono/2

parallelismi di carta (stampata)



«Io non percorro la vostra strada»
Friedrich Nietzsche, esergo dell’ultimo Indipendente diretto da GbG, 05.02.2005

«Né io né lei siamo buoni ad attaccare manifesti elettorali, ci verrebbero tutti grinzi e sgocciolanti»
Luigi Castaldi, lettere al direttore, L’Indipendente - 05.02.2005, p.4

Strano che nessuno l’abbia ancora detto, ma quanto succede in questi giorni all’Unità, con la redazione in sciopero contro i tagli che l’editore Soru starebbe per approvare, ha un precedente recente nella carta stampata. Ricordate l’Indipendente? Non mi riferisco a quello nato nel 1991 per mano di Ricardo Levi e condotto da Vittorio Feltri al traguardo delle 120.000 copie cavalcando la tigre di Tangentopoli. Mi riferisco, invece, a quello riportato in edicola da Giordano Bruno Guerri nell’aprile del 2004, nel formato classico del quotidiano d’opinione post-Foglio (4 pagine). Bene, l’editore quella volta era l’attuale vice-capogruppo del Pdl alla Camera, Italo Bocchino. Il quale, tra le altre cose, nel febbraio 2005 era candidato per il centrodestra alla guida della regione Campania. Quanto successe allora, tanto da rievocare oggi questo parallelismo, è presto detto: Guerri, che stava facendo un ottimo giornale, fuori dagli schemi, orientato su un anarchismo a-partitico che a volte – solo a volte – si appoggiava su uno strano asse FI-Lega Nord (strano perché la testata era campana, usciva in panino con un giornale salernitano e l’editore e tutti gli imprenditori coinvolti erano campani), che poco amava il sub governo che il partito dell’editore insieme ai centristi dell’Udc voleva formare all’interno della legislatura Berlusconi 2001-2006, fu silurato improvvisamente e, apparentemente, senza motivo. Apparentemente perché, sotto sotto, il motivo c’era. Ed era lo stesso per cui Soru ha pensato bene di comprarsi l’Unità: avere giornale che, all’occasione, fungesse anche da megafono pro-editore in campagna elettorale. Per questo al posto di Guerri fu chiamato alla direzione dell’Indipendente Gennaro Malgieri, intellettuale di area An (lo stesso partito nel quale, al tempo, militava Bocchino), ex direttore del Secolo d’Italia, parlamentare e consigliere Rai. Il cambiamento fece incazzare parecchio i lettori di allora, che si trovarono al posto di un giornale un po’ sgangherato ma vivo, vitale, pensante e che faceva pensare, una copia sbiadita e compressa in quattro pagine del Secolo d’Italia. Un giornale senza mordente, senza spunti d’interesse. Scialbo. Certo, non c’erano strilli in prima pagina che facevano il tifo spudorato per l’editore (come è avvenuto negli ultimi tempi sull’Unità), ma insomma il quotidiano faceva il suo mestiere: non rompeva le palle all’editore, non lo imbarazzava e, quando c’era bisogno, era pronto a buttare giù qualche riga in suo favore. Sia detto con franchezza: nulla di inconsueto nel mondo della stampa, né tantomeno illegittimo. Solo era evidente un po’ di quella «prostituzione intellettuale», concetto che ora grazie ad un fighetto seduto in panchina pare essere diventato di esclusivo dominio del mondo pallonaro.
Noi, i lettori di quel giornale, capimmo subito che aria tirava, e piano piano lo mollammo. Il quotidiano perse copie, e insieme ad esse splendore e vitalità. Nel frattempo la campagna elettorale era finita, l’editore aveva perso la presidenza della regione Campania contro il candidato del centrosinistra, il direttore se ne andò – e non fu cacciato perché amico e all’interno dello stesso partito, di più: della stessa corrente, non si fanno questi sgarbi. La testata fu venduta a un altro gruppo di editori, nessuno dei quali a mia memoria aveva forti interessi nell’usare il giornale come manifesto elettorale. Anzi, non aveva interessi particolari nella carta stampata tout court, visto che il nuovo corso fu un fallimento (l’ennesimo?) e la testata, insieme con i suoi redattori, fu assorbita da una fondazione di stampo berlusconiano prima e casiniano adesso, guidata da un ex comunista con i fiocchi, per farne un quotidiano così e così.
Finito il parallelismo, cosa rimane? Rimane che le due situazioni sono simili: due megafoni che partono pieni di promesse (dell’editore) e terminano il servizio quando non servono più. Una funzione stupida della stampa. Non rimane nient’altro, nel vero senso della parola – mi piace solo far notare questo, e condividerlo con chi se lo ricorda. All'Indipendente, solo, non ricordo che scioperarono.

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Da dove mi leggono

mercoledì, marzo 04, 2009

così difficile?

A Repubblica stamattina l’hanno fatta un po’ lunga con la «modernizzazione e la semplificazione» - ma chi siete, Brunetta? L’han fatta lunga con la menata dell’«interesse del lettore e delle sue esigenze», perché se pensassero al lettore non pubblicherebbero certi pipponi illeggibili in R2. L’han fatta lunga con la rifinitura di 3 centimetri (rifinitura? Leggasi pagine più corte) che renderà Repubblica «più pratico e più comodo come oggetto quotidiano». L’han fatta lunga con la questione del carattere ingrandito, così da facilitare la lettura.
Poche balle, bastava dire che c’è crisi, che si raccoglie meno pubblicità e che la carta costa. Punto.

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Un omone adorabile - e un ometto un po' meno.

«Il cuore del messaggio è questo: in una Milano troppo morbida e troppo mielosa, la Milano dei Gino strada e degli interismi alla Gad Lerner, arriva finalmente un uomo che invece di portare la pace porta la guerra [...] Stiamo diventando tutti interisti. O meglio io sto diventando interista, perché sono un famoso voltagabbana. Invece gli altri redattori mantengono le preferenze. Ho un vicedirettore interista, un altro romanista. E quindi sono bene equilibrato da questo punto di vista. Io stesso sono romanista, ma per Mou potrei anche diventare un interista accanito.»
Giuliano Ferrara, Corriere.it - 04.03.2009

Con qualche giorno di ritardo, anche il Corriere della Sera si è accorto che il Foglio ha lanciato una nuova campagna, questa volta pro-Mourinho.

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martedì, marzo 03, 2009

a maggio Il Fatto, quotidiano di ispirazione dipietrista?

Secondo il quotidiano online Affaritaliani.it, a maggio dovrebbe uscire Il Fatto, quotidiano diretto da Antonio Padellaro che dovrebbe far concorrenza alla moribonda Unità. Sconosciuto al momento l’editore, sono pronto a scommettere fin da ora sulla linea politica e su Marco Travaglio come editorialista di punta.

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New York Times a tutto spot.

Qualche settimana fa ha rotto uno dei suoi principi più sacri, ed è andato in stampa per la prima volta nella sua vita con la pubblicità in prima pagina.
Oggi pubblica un fascione pubblicitario anche sulla home page del suo sito. Un mio amico mi chiama e mi dice: «hai visto? Almeno è la pubblicità del nuovo MacBook Pro.»

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Mah.

Gli ho fatto le pulci, quindi non dovrei chiedere niente. Ma il sito di Wired ha i feed RSS fermi a giovedì scorso. Poi gli piacerebbe essere sempre più connessi.

edit: non vorrei pensare di avere una parte in causa, ma ora hanno ripreso a funzionare.

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vola merda, ma io sono di destra.

Come ormai saprete, Andrea Romano ha mollato l’Einaudi della quale era responsabile della saggistica. Lo ha fatto poiché si è sentito chiamato in causa dal direttore generale Ernesto Franco che, intervistato da Repubblica [20.09.2009, p.52], oltre a definire «senza esitazioni» l’Einaudi come «di sinistra», lamentava l’incursione di una certa destra («area teo-con, area Foglio per intenderci») all’interno della sua casa editrice – cioè, sua in quanto direttore, ma di proprietà del Cav. via Mondadori. Tale incursione è da individuare (anche) nella pubblicazione del libro Cambiare Regime (Einaudi – Gli Struzzi, 2006) di Christian Rocca, uscito nella collana di cui Romano era responsabile. Rocca lo fa subito notare sul suo blog, unitamente al fatto di dichiararsi – insieme al suo libro (casomai non fosse bastato il sottotitolo «la sinistra e gli ultimi 45 dittatori») – «di sinistra» . Il Riformista, che è un giornale di sinistra-ma-non-troppo, domenica scorsa fa un editoriale [01.03.2009, p. 4] sulla questione, indicando come Christian Rocca di destra, poiché scrive sul Foglio. Il giornale diretto da Antonio Polito fa di più, si concede il lusso di uno sberleffo, forse in restituzione di tutte le volte che sui blog si è insinuato che certi blogger vendano più del Riformista, se si fa un paragone tra il numero dei lettori giornalieri dei primi e quello degli acquirenti del secondo. Si legge infatti nell’editoriale che «se Christian Rocca è di sinistra, Berlusconi è dipietrista»; una frasetta che, c’è da scommetterci, ha mandato più in bestia Rocca che Berlusconi, semmai quest’ultimo l’abbia letta. Rocca – che sulla blogsfera è conosciuto come Camillo e, sì, pare che venda più del Riformistareagisce piccato e, in virtù del fatto che Il Riformista l’abbia definito «di destra» perché scrive sul Foglio (e non per il libro che lui definisce «di sinistra») si mette ad elencare tutti i motivi per cui, in base a questo strampalato sillogismo, Il Riformista – che conosciamo come di sinistra – dovrebbe essere di destra: due vicedirettori arrivano dal Foglio, e uno è anche parte dell’ala destra di Comunione e Liberazione; alcuni collaboratori arrivano dal Foglio; l’editore del Riformista è la famiglia Angelucci la quale, tra l’altro, oltre ad avere un parlamentare nelle fila del Pdl edita anche Libero – non pervenuto, infine, il motivo che ha spinto Rocca a dargli anche di «proprietari di cliniche private romane», come se la cosa c’entrasse con la questione, o con l’editoria, o al massimo con la cultura.
Alla conclusione di tutto si segnalano due autorevoli opinioni: Malvino che parla di «merda che vola» da una parte all’altra, Filippo Facci sul Giornale che conclude secco: «se non ve ne frega niente siete di destra».

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Rendi potrebbe risollevare anche l'Audiradio.

Gli svizzeri, si sa, sono famosi per essere i primi in tante cose. Hanno il cioccolato migliore – o almeno questo pensano. Rispettano l’ordine e la disciplina. Di sicuro, hanno paesaggi verdissimi e strade più pulite delle nostre. Anche in un’altra cosa sono avanti: hanno sviluppato da tempo un sistema che cattura la musica proveniente dai sintonizzatori audio fornendo quindi i dati di ascolto in modo preciso. L’aggeggio si chiama Radiocontrol, ed è una specie di orologio che “fotografa” a intervalli regolari brevi frammenti di musica dall’ambiente che circonda chi lo indossa. Fatta la rilevazione, i risultati sono inviati a un cervellone che, analizzando il contenuto delle frequenze, riesce a determinare quale emittente radiofonica era ascoltata quel certo giorno a quella certa ora. In questo modo, i dati di ascolto delle radio sono precisissimi. Niente a che vedere con il nostro Audiradio che, basandosi su interviste telefoniche, presenta dei dati che fanno acqua da tutte le parti e che non riescono a fornire un quadro specifico degli ascolti radiofonici del nostro paese.
Le cose, però, potrebbero cambiare anche qui da noi. Se non proprio nella rilevazione dei dati di ascolto radiofonici, almeno per quanto riguarda lo stabilire quale pezzo è stato passato – e da chi – in quale momento della giornata, in modo tale che la Siae e la Scf (Società Consortile Fonografici) possano riscuotere i diritti e ridistribuirli più equamente agli aventi diritto. L’innovazione si chiama Rendi ed è il risultato di una ricerca condotta all’Università di Padova da Nicola Orio il quale, dopo aver completato il lavoro, ha chiesto alla Direzione Musica di RTI (gruppo Mediaset) una partnership per avviare un periodo di prova. Il funzionamento è del tutto simile a quello dello svizzero Radiocontrol: riuscendo a isolare i rumori di fondo – almeno questa è la promessa – Rendi capterà quale musica sta suonando nell’ambiente circostante e confronterà il risultato con i brani presenti nel suo database. I vantaggi? Chi trasmette musica non dovrà più occuparsi di redigere i rendiconti di ciò che trasmette, e chi amministra i diritti avrà una fonte in più di sicurezza su quanto passato. Ovvero: basta con le tariffe forfettarie pagate da chiunque trasmetta musica in base a criteri ormai obsoleti, e basta dunque anche alle ridistribuzioni dei compensi che premiano sempre i soliti (la cosiddetta ripartizione supplementare della SIAE). Rendi sarà soprattutto «in grado di diventare una nuova fonte di guadagno per la discografia», nelle parole di Guido Dall’Oglio, responsabile della Direzione Musica di RTI.
Ora, una volta tanto che si è giunti a un buon sistema – pure prendendo spunto da analoghi strumenti già disponibili – perché non utilizzarlo su larga scala? Non per ribadire tutte le volte i medesimi concetti, ma il sistema di rilevazione degli ascolti radiofonici in Italia è pessimo, e questo tutti gli operatori del settore sono pronti a testimoniarlo (fatta eccezione per quelli che, ogni trimestre di pubblicazione dei dati, occupano il posto più alto). Dotando un campione significativo di ascoltatori di un apparecchio come Rendi, sarebbe possibile determinare in modo più fedele i dati di ascolto, e quindi riuscire a delineare meglio le caratteristiche delle varie fasce orarie. Tradotto in parole povere: i direttori artistici (e gli editori) saprebbero cosa va e cosa non va nella loro stazione grazie a dati fedeli, e allo stesso tempo potrebbero meglio pianificare la vendita di pubblicità, invogliando ad acquistare spazi con la consapevolezza che ci si può rivolgere a un target ben preciso (o ad un bacino di ascolti altrettanto consistende) al giusto prezzo. Sarebbe una rivoluzione tanto attesa.

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domenica, marzo 01, 2009

per il resto, sono solo fatti degli altri.

Ho capito a cosa serve Facebook. A leggere che una tua ex è Capricorno e scoprire, grazie ad un’applicazione, che quel segno possiede una forte attrazione verso le persone Bilancia.

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